Fausta è una donna in carriera. Alle cinque e venti di un sabato mattina si sveglia al terzo squillo del telefono. Una voce femminile le chiede di uscire urgentemente di casa: c’è qualcosa per lei fuori dalla porta.
Questa è la scena iniziale di Luminosa (2016), romanzo della scrittrice argentina Gilda Manso, pubblicato in traduzione italiana (di Antonella Di Nobile) dalla casa editrice Wojtek (2020).
Quando Fausta si alza dal letto per aprire la porta, ha il gesto irriflesso di estrarre la pistola dalla cassaforte e di caricarla. Alla vista del neonato sul tappeto di casa, i gesti sono altrettanto irriflessi, ma a motivarli non è più un automatismo di difesa razionale: non c’è alcuna logica prudente nel raccogliere borse e bambino e portarli in casa. A guidarla sono altri istinti: «non pensò tutto questo, ma il suo inconscio sì».
Con queste sequenze da giallo si avvia il romanzo, che è una storia breve, concentrata: l’intera vicenda copre l’arco di due giorni, numerosi flashback introducono in progressione la personalità di Fausta.
Tutta la catena di figure secondarie evocate – i genitori, la migliore amica, i fidanzati – sono funzionali a far emergere i conflitti interiori della protagonista. È una tensione sotterranea, quella che attraversa il romanzo, che trova fondamento nelle modalità con cui Fausta ha filtrato – a partire dai discorsi pronunciati dalla madre e dalla zia – l’immagine femminile. Sono appunto le intransigenze di questo modello culturale a spaventarla da bambina: in particolare le implicite conseguenze della maternità (una donna smette in parte di essere donna quando diventa madre) e la deresponsabilizzazione (attuata prima di tutto dalle donne) del ruolo maschile nella gestione dei figli. Queste norme comportamentali sono silenziosamente interiorizzate da Fausta. Su un piano cosciente, invece, lei le rifiuta. Così giunge alla soglia dei quarant’anni senza il desiderio di creare famiglia, devota esclusivamente al lavoro nella fabbrica del padre. Centrale è il rapporto che la protagonista instaura con una pistola a partire dal sequestro del genitore, fino al ritrovamento del neonato.
La vera emancipazione di Fausta si manifesta soltanto nelle scene finali del romanzo, e ha lo stesso sapore – ma rovesciato, tutto femminile – della rivelazione vissuta dall’ex compagno Cristóbal al momento del loro primo incontro. Il richiamo alla luce – che è forza propulsiva, generatrice – ha una struttura circolare, attraverso la descrizione di due momenti posti l’uno quasi all’inizio e l’altro in chiusura della storia.
Quando Cristóbal nota lo sguardo «censore» di Fausta, che a sua volta sta osservando lo sguardo «meccanico», «abituale» degli uomini seduti al bancone e rivolti verso la gonna molto corta della cameriera, è colto da un rischiaramento interiore e si decide al cambiamento. Decide di apportare modifiche al proprio bar, che fino a quel momento era stato un locale squallido, con un’aria «satura di decadenza» e cupa.
Attenzione: spoiler
Proprio l’elemento della luce diventa il criterio che guida la risistemazione dell’ambiente: Cristóbal sostituisce la tonalità marrone «inaccettabile» con il bianco, perché il bianco «invita a sperimentare. È il colore di quelli che vogliono ricominciare da capo, il colore della luce».
Il legame tra questo episodio e quello finale è evidente: come Cristóbal risolve i suoi conflitti nel momento in cui, grazie allo sguardo di Fausta – e quindi di una donna – osserva la cameriera con una coscienza diversa – non ragionando più, cioè, da uomo, ma da padre – , così il definitivo e felice abbandono di Fausta all’istinto materno si concentra tutto nel gesto eloquente di rinunciare alla pistola e, insieme alla pistola, al grande e latente bisogno di celare il proprio sentire femminile – di figlia, donna, possibile madre – dietro una duratura apparenza di forza maschile.
Quando, nelle ultime pagine del romanzo, Fausta apre la cassaforte e vede la pistola prova immediata gratitudine per l’arma che per anni aveva contribuito alla sua stabilità personale, allo stesso tempo se ne sente per la prima volta distante, a tal punto che lo scarto temporale tra la se stessa del passato e quella del presente non sembra sufficiente a giustificare la contraddizione provata alla vista dell’oggetto: intuisce, ma non comprende ancora, «quella sensazione di empatia, di coincidenza fra le due circostanze», che pure la sta inondando «della forza di una certezza». È poco oltre che l’epifania finalmente si compie, attraverso la scoperta del significato del nome del neonato: Marisol vuol dire luminosa. Allora Fausta viene a galla: si sente appunto «come chi caccia, infine, la testa fuori dall’acqua», e piangendo dà voce alla sua consapevolezza che è quasi una catarsi: «Ha senso. Giuro che ha senso».
Simbolica, a questo punto, non può che essere la scena in chiusura del libro: la protagonista afferra la pistola – ormai divenuta inessenziale, privata del suo valore di occultamento emotivo – e toglie i proiettili per renderla innocua: «ora aveva una figlia, non poteva andare con un’arma in giro per casa».
Il romanzo di Gilda Manso è contraddistinto da una scrittura fluida e veloce, concreta e informale, ma paga alcuni momenti di semplicità stilistica e creativa rispetto a un tema attuale e complesso, come quello delle aspettative culturali riguardo al comportamento femminile – ciò che le donne sono tenute a essere e a diventare (in quanto donne e in quanto madri). Dato, poi, il taglio intimistico della narrazione, ci si aspetterebbe forse un’esplorazione più capillare, più raffinata dell’evoluzione del personaggio dall’iniziale negazione all’apertura liberatoria nei confronti dei propri desideri. E questo sarebbe stato – a maggior ragione – necessario, per evitare di semplificare troppo la stratificazione psicologica di Fausta, che meritava semmai di essere spinta molto oltre la pericolosa rigidità di alcune formule già troppo abusate intorno a questo tema – l’allontanamento dal modello femminile offerto dalla madre attraverso l’assunzione di ruoli più maschili; la donna lavoratrice instancabile come contraltare della casalinga. Il pericolo è quello di cedere alla retorica e ai suoi cortocircuiti.
Sharon Vanoli
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