Potremmo definire quella tracciata da Pasquale Pietro Del Giudice in Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019) una speleologia degli oggetti. La maggior parte dei testi contenuti nella silloge obbedisce a una dialettica tra io e mondo (artificiale) in cui il primo è in grado di vedere la vasta gamma di significati riposta negli elementi del secondo.
Nell’affondo all’interno di questi elementi, delle pieghe semantiche e ontologiche degli oggetti, risiede la ragion d’essere della poesia di Del Giudice.
Disfunzionalità degli oggetti
Per avvicinarsi a questo libro è certamente utile tener presente la formazione filosofica dell’autore. È un aspetto che influisce sulla sua scrittura non solo, e non principalmente, a livello lessicale, o citazionale (è di Wittgenstein, ad esempio, l’esergo in apertura), ma soprattutto a livello strutturale, sul modo di organizzare il discorso interno ai testi: non di rado l’incipit è una denotazione, un appunto, un’ipotesi («Essere vivi è essere morti», «Variegata è l’orchestra, la nomenclatura», «Lapalissiana è la componente erotica / nelle caldaie domestiche»), che il resto della composizione tende a dimostrare, attraverso una serie di immagini accostate l’una all’altra e unite – mi soffermerò su questo più avanti – da una relazione analogica, con uno schema ricorrente (in un botta&risposta tra l’autore e il critico Davide Castiglione, su La Balena Bianca, si è parlato infatti anche di prevedibilità[1]).
L’intera opera si fonda, d’altronde, su un meccanismo filosofico preciso, che è quello fenomenologico, almeno in duplice senso: in prima battuta c’è la centralità (tematica, intenzionale) data agli oggetti, intesi sia come manufatti sia – filosoficamente, ancora – come fenomeni che, kantianamente, interferiscono con la ragione; ma c’è anche, su un piano ulteriore, l’impossibilità che questi oggetti si diano alla coscienza nella loro totalità. Per comprendere lo smontaggio che «le cose» subiscono in Del Giudice bisogna considerare l’assunto fenomenologico per cui un oggetto non si manifesta mai nella sua interezza; ma la tridimensionalità, la temporalità in cui gli è possibile offrirsi gli impongono anche una parzialità fenomenica che, per lo spettatore, è insormontabile.
Nelle zone d’ombra originate da questa impossibilità di una totalità di sguardo, si colloca perciò la ragione concettuale della scomposizione chirurgica che Del Giudice opera sugli oggetti. In questo, la poesia d’apertura – che si colloca prima delle sei sezioni che compongono il libro, che parla di «massa informe» e «Universo» in espansione, e già così si manifesta come poesia-preambolo e poesia-big bang – è la più programmatica: «Gli oggetti contengono il plasmabile / la creazione spontanea e il sapere del passato», perciò al poeta e al suo interlocutore spetta il compito «di intuire / l’altro latente […] il ventaglio lasciato aperto / durante la creazione, la sfera del possibile».
Le Piste ulteriori sono allora le dimensioni altre che un oggetto può abitare, dietro quella in cui è quotidianamente mortificato. Queste dimensioni possono svelarsi in virtù di una doppia autorizzazione: filosofica in senso stretto (l’impianto concettuale fenomenologico, di cui sopra) e poetica (l’impianto estetico analogico, di cui al paragrafo sotto). In questo modo – un esempio vale per gli altri – il mocio non è solo un mocio ma anche un «Polipo addomesticato, sbattuto sulla pietra / sulle superfici di casa, / piste d’atterraggio o da pattinaggio / per curling amatoriali / per parrucche di treccine idroassorbenti, / scettro delle signore di casa / migliore amico, fucile delle casalinghe».
Giustapposizione e analogia
Vista la natura teorica dell’oggettualità in Del Giudice, occorre ora spostarsi su quella schiettamente poetica, quella che guarda agli oggetti, cioè, non come stimoli cognitivi, fenomenici, ma come serbatoi simbolici. Anche qui, uno sdoppiamento: l’autore coglie infatti la stratificazione simbolica riposta negli oggetti attraverso due strumenti poetici-linguistici diversi ma intrecciati fra loro, che sono l’analogia e la giustapposizione.
La prima è una spinta, potremmo dire, trascendente e metaforica: se già cognitivamente l’oggetto non può darsi nella sua interezza, in contesto poetico le parti in cui si manifesta non sono solo parti fisiche, ma anche simboliche; compare, cioè, un corredo di associazioni (sensoriali, funzionali) che fa capo all’oggetto in questione. Così i «pesi di ghisa circolari» sono contemporaneamente anche «rotonde su una strada provinciale», «lecca-lecca», «dinamo».
Contemporaneamente, la giustapposizione traduce l’attraversamento analogico dell’oggetto sul piano longitudinale del discorso e dello stile. Ciò che l’analogia rintraccia nei sedimenti immaginifici degli oggetti, la giustapposizione organizza sulla superficie del testo, configurandosi – a questo punto – come spinta immanente e metonimica, e piegando le composizioni verso l’accumulo, l’elenco, l’asindeto. Non bisogna però vedere nella giustapposizione solo un meccanismo neutro di accostamento; al contrario, proprio l’accostamento, in uno spazio poetico così costruito, è significante: l’asindeto sostituisce i nessi esplicativi, e così spetta alla semplice vicinanza degli oggetti la facoltà di fabbricare le relazioni – analogiche, per lo più – fra loro («Un computer: una macchina del caffè»).
La fucina di produzione simbolica di Del Giudice, perciò, si fonda su una perpendicolarità fra l’analogia che scava all’interno dell’oggetto e la giustapposizione in grado di coglierlo come metonimia di una sfera di significati che lo ingloba e supera.
Disfunzionalità del punto di vista
Un trattamento ugualmente intenso è riservato all’altro polo della dialettica qui evidenziata: quello dell’io. Per quanto comunque privilegiato da una certa centralità ontologica, il soggetto, poiché incarnato, partecipa anch’esso all’universo della parzialità fenomenica: se da una parte si può parlare di disfunzionalità degli oggetti (un mocio diventa un polipo anche in virtù della possibilità – seppure ipotetica – di licenziarlo dalla sua funzione solita e destinarlo ad una diversa), dall’altra si può parlare di disfunzionalità del punto di vista soggettivo.
Anche nel caso del soggetto, lo “smontaggio” è garantito da ragioni sia teoriche sia poetico-retoriche. Per quanto riguarda il primo aspetto, il soggetto-corpo, in quanto res extensa obbedisce alle stesse regole degli oggetti: può darsi solo in misura parziale, può – nelle sue singole parti – obbedire anch’esso alla trafila delle analogie e degli usi alternativi. Così la figura umana subisce un vero smantellamento anatomico in Pensierini sui trent’anni, e la lingua, in Lo psittaciforme,si dedica a una ginnastica disobbediente al linguaggio e alla comunicazione («la metto a dura prova con fonemi / inesistenti, giochi consonantici / fuori dal recinto del significato»).
Dall’altra parte, sul tavolo dell’altro episteme, gli strumenti poetico-retorici (quindi, platonicamente, esclusi dalla filosofia) problematizzano la componente immateriale del soggetto, la costruzione di significati. Lo strumento più crudo, in questo, è l’ironia: termini come «culo», «culo bianchiccio», la natura colloquiale di espressioni come «Avere male alla capoccia» o l’allocutorio «vedi tu», rodono la postura per il resto molto “seria” della voce parlante.
L’ironia che sabota l’autorevolezza del soggetto, la “disfunzione” verso cui lo piega (il punto di vista smette di funzionare come punto di vista e oscilla tra la sfera del soggetto e quella delle cose: «io so qualcosa / che loro non possono immaginare di se stesse / loro di me qualcosa che tento invano di estorcere») sono quindi indici di uno scontro sotterraneo in cui forse proprio l’impianto teorico e l’esercizio artistico vengono a confliggere, con il primo che impone teticamente un certo schema e il secondo che lo problematizza dall’interno.
È per questo, credo, che a una certa altezza del libro l’autore sente la necessità di un momento metapoetico, di auto-interrogazione, che – è significativo – coincide anche con il testo a più alto dosaggio di ironia, Una poesia su chi scrive metapoesie: «Si dice che gli autori di metapoesie / non abbiano più nulla da dire, che guardino se stessi / osservare il mondo senza nulla da aggiungere / da combinare, da articolare / se non il modo in cui lo omettono, dietro la scrittura». L’oggettualità in Del Giudice, insomma, si rivela agitata anche dalla scelta del mezzo poetico tout court, il quale entra in contrasto epistemologicamente con il mezzo filosofico. Le zone d’ombra generate dai fenomeni aprono ulteriori zone d’ombra nell’integrità del soggetto, che si ripercuotono sul suo linguaggio e sulla sua funzione, fino al punto in cui – e sono non a caso gli ultimi versi del libro – occorre «suggellare, una volta per tutte, la mia appartenenza / il mio giuramento alla sfera delle cose.»
Antonio Francesco Perozzi
[1] https://www.labalenabianca.com/2020/06/02/castiglione-del-giudice-piste-oggetti-dirottati/
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