S’intitola Il cavaliere, la morte e il diavolo ed è un’incisione a bulino del 1513 del tedesco Albrecht Dürer, quella che vedete di sopra. L’opera si inserisce – pur senza il consenso esplicito del suo autore – in un trittico ideale, di cui fanno parte il San Girolamo nella cella e la Melencolia I, e che insieme rappresentano le tre le vie della salvezza o le tre virtù (morali, teologiche e intellettuali). Dunque, ciascuna delle parti del Meisterstiche, il trittico, acquista un diverso valore se considerata in relazione alle altre due e ne risulta imprescindibilmente legata. Una relazione che si rinsalda quanto ai personaggi di quest’incisione: benché Dürer si riferisse all’opera facendo cenno soltanto al cavaliere, le due figure dietro di lui sono avanzate con prepotenza, tanto da guadagnarsi menzione nel titolo poi diffuso, ché senza di loro non sarebbe la stessa cosa.
Secondo l’interpretazione più accreditata, nell’immagine dell’uomo a cavallo risiede l’esemplificazione del miles christianus, icona di una solida fede che non si lascia scalfire da diaboliche tentazioni e non teme l’agguato della morte. Se guardate bene il suo volto, il cavaliere è impassibile, per nulla turbato dalle terribili apparizioni che accompagnano il suo viaggio. Se questo fosse un film dell’orrore, sarebbe un jumpscare decisamente malriuscito. Sulla pregnanza di questa figura vi è una generale concordanza di interpretazioni, che sarebbe universale se le più recenti ipotesi non avessero proposto un rovesciamento di segno: l’uomo non sarebbe più emblema di una religiosità cristiana incrollabile, ma bensì un raubritter, esponente di una classe cavalleresca dedita a ruberie e saccheggi. In questo senso, il diavolo e la morte sarebbero né più né meno di due compagni di viaggio – un viaggio all’insegna del peccato. Anche da questo punto di vista, si capisce perché il cavaliere non li tema. Ed è proprio della morte e del diavolo, e della paura, che vogliamo parlare.
Il diavolo, si sa, non è sempre stato brutto. Una narrazione cristiana ci ha consegnato l’immagine del maligno per eccellenza come di un angelo dalle fattezze bellissime, identificato con Lucifero, e poi punito per la sua tracotanza. E come un angelo appare in un mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, datato intorno al 520, benché sia rosso. Nella letteratura dei primi secoli dopo Cristo – come nei racconti delle vite di santi o di eremiti – il diavolo compare sotto forma di lascive sembianze di prostitute o di giovani, emblemi di una tentazione da cui rifuggire. Non molto diversamente dal Nuovo Testamento, in cui il diavolo si manifesta non nella sua fisicità, ma tramite gli effetti che suscita sulle sue prede o nel corpo degli indemoniati. Quel che è certo, fin dall’inizio, è che il diavolo, nella sua corporea materialità e nella sua stessa essenza ontologica, è un essere multiforme, e in quanto tale si stava già preparando a tutte le mutazioni possibili.
È a partire dall’XI secolo, in un’epoca in cui la religione permeava la quotidianità in una misura ben più massiccia di oggi, che il diavolo si afferma nelle sue sembianze umanoidi ibridate di connotati animaleschi, nelle arti figurative e letterarie. Ancora nella Commedia dantesca, nei canti XXI e XII dell’Inferno, i diavoli conservano un che di risibile e di farsesco pur nella loro malvagità. Ma già nei mosaici del battistero di Firenze, realizzati a partire dal XIII secolo, troneggia un Satana immane e mostruoso con corna caprine e orecchie asinine da cui fuoriescono serpenti. È l’iconografia del diavolo consegnato all’immaginario collettivo dei secoli a venire, fatto (anche) di membra di bestie diverse incollate insieme, che siano di leone, di lupo, di porco, di pipistrello o di svariati animali cornuti, e che ritroviamo nel suddetto lavoro di Dürer.
Per Giotto come per Beato Angelico, nelle miniature medievali come negli Acta sanctorum cinquecenteschi, il diavolo è un essere livido, alato, spaventoso, ferino e mangiauomini. Vicino, ma neanche tanto, alla rappresentazione del demoniaco in Dürer, che ne mantiene l’aspetto tipico da collage come in un mostro di Frankenstein animale, dove al di là della postura rimane ben poco dell’uomo. Ma il suo è un diavolo grottesco più che spaventoso, molto più somigliante a un diavoletto qualunque come nelle illustrazioni del Dizionario infernale di de Plancy che al re del male in persona. Se ne osservi bene la statura: è decisamente piccolo, di sicuro più minuto degli altri coprotagonisti dell’opera. Niente a che vedere con l’orrida maestà che di lì a breve Tasso attribuirà a Plutone. Ecco, da questo punto di vista Dürer sceglie di percorrere – chissà quanto consapevolmente – un’altra tendenza: quella che, sbeffeggiandolo o umanizzandolo, finisce con l’esorcizzare il diavolo, e col renderlo alla fine meno temibile.
Ci penserà L’esorcista, nel 1973, a incutere a tutte le generazioni presenti e future un’indomabile paura del demonio – benché i cinefili più incalliti obietteranno che, quello del film come del romanzo prima di lui, non era il diavolo cristiano, bensì Pazuzu, un demone della mitologia babilonese. È interessante constatare che, fatte le dovute eccezioni, negli ultimi quarant’anni il principe delle tenebre si sia manifestato sullo schermo sempre più di sovente mediante attori in carne e ossa. Dismesse le fugaci ed eteree apparizioni in stile Rosemary’s Baby, il diavolo ha assunto fattezze carismatiche (Le streghe di Eastwick), seducenti (L’avvocato del diavolo), femminee (La passione di Cristo) e persino bellocce, come nei casi delle serie tv Lucifer e Supernatural. A dargli corpo sono attori come Al Pacino, Robert De Niro, Viggo Mortensen, al netto di qualsivoglia protesi o maschera, come accadde invece al Tim Curry di Legend.
Il cinema e la televisione, negli esempi succitati, non fanno che immettersi su una strada già calcata molti anni prima, dalla letteratura otto e novecentesca. Quella di Dostoevskij, di Goethe e di Mann, per intenderci, per cui il diavolo è già non un essere infernale dal colorito rosso e dimensioni mostruose, ma in tutto e per tutto simile a noi. E si veda, in proposito, anche il Lucifero di Franz von Stuck o il Satana di William Blake, per scoprire come l’epoca romantica aveva spogliato il demonio di attributi ferini, lasciando il posto a un’umanità – almeno nella forma – sorprendente. Lo scopo è quanto mai chiaro: il diavolo è tra di noi, anzi, potremmo addirittura essere noi. Se la sua trasformazione in essere umano appare temibile giacché ci nega la possibilità di riconoscerlo al primo sguardo, dall’altro lato ne depotenzia la spaventosità proprio in virtù del suo aspetto, rinnovato sì, ma simile al nostro, e quindi già noto.
Chi ha invece mantenuto un’estetica, per così dire, inalterata nel corso del tempo è la Morte, intesa nella sua simbolica personificazione. Che il corpo umano fosse soggetto a decadimento e consunzione è risaputo fin dalla notte dei tempi; non è un caso, dunque, che come allegoria visiva dell’atto ultimo di ogni essere vivente sia stata scelta, in molte culture occidentali, l’estrema effigie di umana riconoscibilità, quello scheletro oltre il quale null’altro rimane. È nei secoli medievali, e ancor più dal Trecento, che la paura della morte raggiunge in proporzione quella per il diavolo: comprensibile, d’altronde, in un’epoca in cui il tasso di mortalità era assai più elevato che al giorno d’oggi e la durata della vita media molto più breve. Ed è esattamente in quei secoli che il Trionfo della Morte e la danza macabra diventano temi ricorrenti tanto in letteratura quanto nelle arti figurative.
Non c’è bisogno di addurre molti esempi: da Gustave Doré a Bruegel il Vecchio, da Salvator Rosa al celebre affresco nell’oratorio di Clusone, la morte appare come conglomerato di ossa, spesso con una falce, talvolta in trono, o sul dorso di un cavallo, o a bordo di un carro, a ricordarci che nulla possiamo di fronte al momento finale. E come un monito ritroviamo la morte anche in Dürer, nella duplice apparizione di memento mori (il teschio in basso a sinistra) e di principio personificato. Anche qui, l’artista rivela una sua originalità, in controtendenza nei confronti dell’iconografia dominante: non più uno scheletro ridente, ma un cadavere in decomposizione, con la barba e i capelli a fare da ultime vestigia di palpitante corporalità. In testa una corona e in mano una clessidra, a dire che il tempo scorre e la morte arriva inesorabile per tutti. Se le sue sembianze sono pertanto meno raccapriccianti di una qualunque altra raffigurazione coeva della morte, Dürer pensa bene mettere i puntini sulle i, a scanso di equivoci: la fine e la decadenza attendono implacabili, sempre.
Se il mietitore incappucciato ha fatto capolino persino nelle moderne serie animate, forse – verrebbe da pensare – c’è meno paura in giro per la morte di quanta non ce ne fosse secoli addietro. Forse bisognerebbe aggiungere che nella stessa incisione di Dürer, sullo sfondo, s’intravede una città, da molti identificata come la Gerusalemme Celeste di ebraica reminiscenza, capitale del regno di Dio. L’imperturbabilità del cavaliere di fronte alla minaccia del diavolo e della morte è dovuta sì nella sua incrollabile fede, ma è una fede radicata nella promessa di una vita ultraterrena. Senza di essa, sarebbe facile credere che il cavaliere sarebbe già caduto da cavallo. C’è stato un tempo, non molto tempo fa, in cui la paura di ciò che ci avrebbe atteso dopo a morte poteva rendere insopportabile l’attesa.
Nell’Inghilterra dell’Ottocento la possibilità che i ladri di cadaveri profanassero una tomba per consegnare il corpo a una scuola di anatomia era talmente concreta da spingere il governo a emanare un provvedimento apposito. Chiunque morisse in solitudine e povertà, tuttavia, poteva ancora credere che le proprie membra sarebbero state dissezionate su un tavolo di medicina. Un secolo dopo, la paura di cadere in miseria continuava a serpeggiare tra gli inglesi, non tanto per il rischio concreto di morire di fame, quanto per quello di finire tra le grinfie di un anatomopatologo.
Si aggiunga che sul finire del diciannovesimo secolo pare che una delle paure più diffuse fosse quella di essere sepolti vivi, come testimonia la circolazione degli studi e del dibattito sull’argomento ancora fino agli inizi del Novecento. Esiste una buona letteratura in merito, per cui ci limitiamo a rimandare a Paura di Joanna Burke. A tutto questo, si aggiunga la disputa intorno all’esistenza dell’aldilà che accompagna il cristianesimo fin dalle sue origini e che ha da sempre creato una condizione di instabilità nell’uomo: l’angoscia di morire si accompagna alla paura dell’inconoscibile, il supremo ignoto che non può in alcun modo essere indagato. Tutto sommato, ci sembra che ciò di cui il cavaliere di Dürer debba avere paura non sia la fine del suo tempo, ma il pericolo di non arrivare mai a quella città eterna.
Andrea Vitale
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