Se dovessi pensare a un momento, nella mia vita, in cui ho percepito che qualcosa di maestoso stava accadendo, sceglierei senza dubbio l’11 settembre. Ricordo dov’ero e cosa stavo facendo, quando tutte le tv cominciarono a trasmettere in contemporanea le immagini dell’attentato. Non avevo mai sentito parlare prima delle Torri Gemelle, il terrorismo era solo una parola sul vocabolario e persino New York era poco più che una sagoma mitizzata dall’universo seriale, ma intuii benissimo che un messaggio a reti unificate doveva significare qualcosa. La conferma arrivò da una subitanea telefonata di mia madre: voleva accertarsi che stessi bene, come se la fuliggine delle macerie avesse potuto seppellire anche me. In effetti, aveva ragione, perché l’11 settembre sarebbe arrivato fino a noi, a dirci che le conseguenze della catastrofe ci riguardavano tutti.
Un appiccicoso retaggio scolastico m’impedisce sempre di parlare di fatti e opinioni in prima persona, pur quando quelle opinioni sui fatti sono le mie. Ho dovuto impormi di scavalcarlo, stavolta, per prepararmi a discutere di un singolare libricino, giacché i suoi autori non solo scrivono in prima persona di tare, abitudini e condizioni familiari, ma mi sembrava, mentre lo leggevo, che stessero parlando proprio a me. Trilogia della catastrofe è un libro che è tre libri in uno, ciascuno firmato da due mani differenti, edito da effequ per la collana Saggi Pop. Del catalogo trasversale di questa casa editrice indipendente la Trilogia è un esemplare illuminante, dalle sembianze minotauresche di chi è un po’ di una cosa, un po’ di un’altra (e un po’ di qualcos’altro ancora). Afferisce alla saggistica, ma anche al reportage e a momenti pure al diario personale. La sua meditazione è molto più teoretica che empirica. Se questo è un saggio, allora bisogna ridefinire le coordinate dei saggi come li conosciamo; prima di tutto, però, bisogna riesaminare il concetto di catastrofe.
Non avevo mai pensato che il significato di catastrofe potesse andare ben al di là dell’evento in sé, del dramma inesprimibile come siamo abituati a pensarlo. L’esplosione di un ordigno nucleare è una catastrofe. L’affondamento di una petroliera in mezzo al mare è una catastrofe. Ma un incidente tragico e inatteso può anche coincidere con la fine di un ordine e la creazione di un altro. In parole povere, smettiamo di vivere come abbiamo sempre fatto. Tuttavia, raramente una catastrofe si identifica con un accadimento isolato nel tempo, preciso, determinato, individuabile. L’attentato alle Torri Gemelle iniziò alle 8:46, quando un aereo si schiantò contro la Torre Nord; nel giro di meno di due ore, i due grattacieli erano crollati. Alle volte, invece, si ha a che fare con un disastro di cui ci siamo lasciati sfuggire l’origine, e men che mai si potrebbe dire quando finirà. Per essere ancora più chiaro, partirò dalla fine della Trilogia. Non a caso, ma vi dirò poi il perché.
Francesco D’Isa ci introduce alla sezione finale del volume in toni che a dire pessimistici si sminuisce la realtà dei fatti che espone, e a dire realistici fa più male di quanto vorremmo. Parla della presenza di CO2 nell’atmosfera e della catastrofe che stiamo vivendo ormai già da un po’, nel nostro qui e ora: il riscaldamento globale, il wicked problem che «non offre soluzioni chiare, ma solo risposte migliori o peggiori». Nulla che giunga del tutto nuovo alle nostre orecchie, o che non potessimo sapere reperendo informazioni da altre fonti, quantomeno con una rapida ricerca su Google. Il vero punto di svolta, il nocciolo dell’argomentazione, sta nel ruolo che recitiamo in questa catastrofe: io, voi, l’autore stesso, tutti quanti. Perché, diciamoci la verità, nessuno può dirsi ignaro delle conseguenze dei nostri comportamenti più rischiosi, controproducenti, dannosi. D’Isa non ritiene che le persone comuni abbiano una responsabilità nel cambiamento climatico maggiore di quella di una multinazionale con le sue fabbriche sparpagliate per il mondo, eppure non stiamo facendo niente per evitare il tracollo, quando tutto ciò che di solito facciamo, muoviamo, mangiamo è invece mirato a ritardare la morte. Che ne siamo consapevoli o meno, una buona dose delle nostre azioni è votata a evitare la fine ultima – o comunque una condizione di vita invalida e precaria. E ciononostante ci rapportiamo al cambiamento climatico come la polvere che finisce sotto al tappeto. Perché? Perché abbiamo a che fare con una cattiva gestione della morte.
Se siamo in grado di capire quand’è il momento di togliere la mano dal fuoco, non altrettanto bene percepiamo che quello in cui stiamo nuotando non è un mare di acqua: «Uno stile di vita improntato sul consumo esponenziale da parte di un numero sempre crescente di persone in un ambiente con risorse limitate è un’idea cretina». Nella sezione della Trilogia che schiera in campo il maggior numero di colti riferimenti bibliografici, sfilano dunque uno dopo l’altro una serie di atteggiamenti e movimenti volti a fronteggiare il problema che il capitalismo, il sovraffollamento e la nostra sola presenza su questa terra stanno causando. Tutti insufficienti, a quanto pare, almeno finché le forze governative non dispiegheranno una strategia collettiva, e sembra che quel momento sia parecchio di là dal venire. E qui ritorniamo alla gestione della morte (o GdM, se vi piace): come mai non avvertiamo l’entità del guaio e non facciamo niente per tutelarci? Semplice, perché quando sarà troppo tardi i risultati delle nostre azioni non verranno a bussare alla nostra porta.
Intrappolati in quel presente permanente di Hobsbawn, è evidente allora che la catastrofe qui intesa si dilata nel tempo, tanto che quando voi e io saremo solo polvere e ossa sarà con ogni probabilità ancora in corso. Non si vive la catastrofe constatando ogni giorno quanto il mondo sia cambiato, ché di questi cambiamenti ci si accorge solo quando sono belli che avviati. Persino l’11 settembre, con il suo inizio e la sua fine determinati dalle lancette di un orologio, avrebbe avuto propaggini nel tempo in un tempo che non rientra in nessun quadrante. Ma il mondo si trasforma, quando la catastrofe avviene. Da qui parte Emmanuela Carbé, dalla catastrofe intesa come «interruzione del continuo, rottura di un equilibrio, creazione e distruzione di assetti». Al principio del libro c’è il principio del mondo, l’origine di tutte le origini. Carbé la prende alla lontana, partendo da una confessione personale ma condivisibile della sua ansia di sprecare il tempo senza essere produttivi. È stato fin dalle prime pagine che ho intuito che questo libro non solo parlasse a me, ma potesse addirittura parlare di me.
Twitter, Facebook, Skype. E poi Kindle, smartphone, Apple. Aggiungi WordPress, Google, internet. La vita di Emmanuela Carbé (e perché, la nostra no?) è sommersa di nozioni, avvisi, titoli. Parla di contraddizioni, vuote adesioni a modelli esteriori che giungono a noi da altre parti del mondo ormai svuotati di significato lungo il loro percorso, e quindi di superficialità, inadeguatezza, insensibilità. Difficile farsi una ragione del dramma che scorre sullo schermo di una tv quando un attimo dopo il cellulare ci notifica altre mille, centomila notizie, più futili forse, ma anche più fresche. «Questa enorme quantità di dati non mi riporta mai all’inizio». E così ci prova da sola, a separare le informazioni e mettere a fuoco per individuare dove tutto è cominciato. Ma riuscire a concepire un inizio – intendo figurarselo con la mente – è impresa titanica, ed ecco allora che ci torna in soccorso la risposta da manuale scolastico. Tutto cominciò con il Congresso di Vienna. Lo abbiamo ripetuto tante volte, a scuola, che il Congresso rappresenta un nuovo inizio. Il punto da cui il mondo contemporaneo comincia. Un Congresso che ristabilì i confini e ridefinì l’ordine, e se dunque la catastrofe coincide proprio con una «creazione e distruzione di assetti», quale miglior momento storico di questo?
Da qui in poi, Carbé dispiega un’ironia e un’inventiva non comuni, immaginando che i regnanti dell’epoca non soltanto ridisegnarono la carta dell’Europa, ma s’inventarono pure tutto quanto fosse accaduto, esistito e vissuto prima di loro. «Le fiabe sono vere», dice Carbé alla volta di Calvino, nella misura in cui l’invenzione può diventare narrazione ufficiale, e tutto quanto viviamo nel post-catastrofe è irrimediabilmente condizionato da questa ontogenesi d’invenzione. Il problema, che l’autrice affronta con la lente dell’umorismo, è gnoseologico, in un senso che è tragico ed elementare insieme: non si può avere coscienza dell’inizio se non quando si è ormai giunti alla fine. Sarebbe rassicurante pensare a un Congresso di Vienna, o a qualunque altro comitato che abbia deciso, in un preciso momento, dell’ordinamento di un mondo che è stato, e che quello sarebbe stato il Principio e tutto quello che sarebbe accaduto da lì in poi sarebbe stato il Dopo: vorrebbe dire che potremmo vivere la catastrofe con consapevolezza, invece di dovercela spiegare dalla fine.
È per questo che la parte toccata a Jacopo La Forgia, quella centrale, sul durante, è inevitabilmente la più delicata, e al contempo assai programmatica per la nostra Trilogia. Con il piglio giornalistico del fotografo-reporter, La Forgia si cimenta nell’impresa di riesumare l’Evento degli eventi, prima e dopo del quale un’intera nazione non è più stata la stessa. Non gli giova il fatto che l’evento in questione sia stato soppresso dalla propaganda filogovernativa, che dall’altra parte del mondo se ne abbia scarsa notizia e che coloro che gli sono sopravvissuti ancora fatichino a parlarne. La catastrofe come «grave sciagura», come «improvviso disastro che colpisce una nazione, una città, una famiglia» è il genocidio perpetrato in Indonesia tra il ’65 e il ’66 ai danni dei simpatizzanti (presunti o tali) del Partito comunista, ad opera delle forze armate del paese. Insabbiato nelle isole dell’arcipelago, tanto che ancora oggi i giovani indonesiani conoscono solo la storia propagata dalle stanze del potere. Il Congresso di Vienna immaginato da Carbé non sembra più tanto una favoletta.
«Delle ottantamila persone uccise a Bali, e delle altre centinaia di migliaia torturate, massacrate e deportate nel resto dell’Indonesia nessuno sa niente». La Forgia si muove tra gli attivisti, professori universitari e persone comuni sopravvissute al massacro allo scopo di recuperare e diffondere una memoria di cui persino gli attori coinvolti nell’azione sembrano voler fare a meno – è la scissione della memoria: «soffermarsi eccessivamente su eventi dolorosi […] non sarebbe un dono ma una condanna». Una fatica tanto più nobile se si considera non soltanto la (comprensibile) ritrosia degli abitanti del luogo a parlare di quei fatti di cinquant’anni fa, ma finanche la prospettiva da cui deve affrontare il problema: La Forgia non è immischiato nel durante, vi è fuori. Mi sono chiesto, mentre leggevo il resoconto del suo viaggio in Indonesia, come ci si possa mai porre nei confronti di una simile catastrofe quando si è costretti a viverla.
Chiunque abbia memoria dell’11 settembre ricorderà di aver percepito la vastità dell’evento. Sapevamo che il mondo stava cambiando mentre le Torri venivano giù tra le fiamme e la cenere, ma non ne eravamo ancora coscienti. Soprattutto, non ci sarebbe mai venuto in mente di pensarci in quell’istante. Coloro che si trovino a vivere una catastrofe sono talmente impegnati a fuggirla o a sopravviverne – o, nella migliore delle ipotesi, ad assistervi sbigottiti – da poter anche solo pensare di interpretarla, codificarla, e dirsi: «Ecco, questa è una catastrofe. Questo è un nuovo inizio, da qui in poi sarà tutto diverso». Quando dialoga con Febriana, la giornalista di Ingat 65, La Forgia ci parla di ricostruzione. Tenta di rimettere in piedi il durante di quel biennio doloroso cercando di non cadere nel prima e nel dopo, quando la sua prospettiva, il suo resoconto, la sua stessa azione è ovviamente collocata al di qua di quegli anni. E non potrebbe essere altrimenti.
In tutti e tre i microsaggi che compongono la Trilogia della catastrofe si ha la sensazione che l’unico punto di vista possibile sia quello più lontano dai fatti narrati. Tutti e tre gli autori si pongono dalla prospettiva del posteriore, sono condizionati dal trovarsi già alla fine o quantomeno ne sentono l’urgenza sul collo. Non che ci sia nulla di male, in tutto questo, o che il loro racconto sia viziato dal tempo che passa; è solo che il libro finisce col chiederci – non so quanto consapevolmente – sulle modalità di conoscenza e di immagazzinamento delle informazioni. Mentre prevede una tripartizione temporale della catastrofe e si interroga sulle forme di ricognizione delle stesse – cosa ce ne facciamo di tutto ciò che è venuto prima dell’inizio? Come affidare la Storia alla memoria? Come prepararsi alla fine senza evitare di affrontarla? – sembra suggerirci che un meccanismo di rimozione, condizionato, forzato o innato, vincola sempre la nostra capacità di ricordare e di programmare i fatti in una cronologia che non si limiti al presente. È qui che sono riandato al mio 11 settembre, e ho capito che in realtà non ho alcuna percezione della Storia prima di quella data, per poi tornare al 10 marzo 2020, a oggi, e realizzare che ho sempre allontanato da me il pensiero di come finirà la catastrofe che stiamo vivendo. E ho temuto che benché si faccia un gran parlare di traumi, di drammi e di catastrofi tutto il giorno, non è detto che siamo preparati a riconoscerli quando ce ne capita uno.
Andrea Vitale
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