La finzione letteraria come strumento di verità: “K. o la figlia Desaparecida”
“K. o la figlia Desaparecida” (edito Giuntina) è un romanzo dedicato al ricordo di Ana Rosa Kucinski, sorella dello scrittore: siamo nel Brasile della dittatura militare e i ragazzi vengono quotidianamente sequestrati dal regime. Attingendo ai propri ricordi, Kucinski costruisce il personaggio di un padre che cerca disperatamente la propria figlia, andando a bussare a qualsiasi porta, con il coraggio e la costanza di chi subisce un’ingiustizia. Le prime pagine, che fungono da prologo della vicenda, descrivono l’assenza e la condizione di desaparecida vissuta dai familiari: il dubbio continuo di chi rimane, le lettere che giungono ad un destinatario scomparso, l’impossibilità di seppellire il corpo. Dalla lettura del romanzo, emerge l’omertà di un popolo perseguitato dal regime, che impedisce al padre di ricostruire un racconto coerente: spesso ci si imbatte in dialoghi tra sequestratori, monologhi confusi e spostamenti inutili tra il Brasile e il resto del mondo.
Con un linguaggio meno retorico, rispetto a quello del regime, che mira all’esaurimento psicologico dei familiari, K. racconta se stesso e la propria famiglia: la trama del romanzo si afferma non solo come celebrativa, ma come viaggio nel dolore e nella sofferenza, che portano il padre a rivalutare l’intero vissuto e tutto ciò che credeva di sapere sulla propria figlia.
Convertirsi in desaparecida
C’è una giovane donna che insegna all’università di San Paolo, possiede una vita privata e si innamora di un altro ragazzo: dettagli che passerebbero inosservati in tempi di pace, se non fosse che K. vive nel Brasile delle sparizioni e dei delatori, che annientano la privacy e trasformano chiunque in un sovversivo. Dal momento in cui si accorge della scomparsa, il padre comincia a fiutare qualsiasi traccia, sperando di poter ritrovare sua figlia: il romanzo ricorda Operazione Massacro di Rodolfo Walsh, per la precisione delle ricerche e il desiderio di giungere alla verità, che impediscono al corpo di sentire la stanchezza e di abbandonare i propositi. Lentamente, lo scrittore ricostruisce un’immagine fisica della ragazza, attraverso le foto e i ricordi: visita la casa del marito scomparso, stampa volantini che nessuno gli pubblicherà e passa in rassegna gli oggetti della vita precedente. Per comprendere lo strazio provato, è sufficiente riflettere sulla definizione di desaparecido fornita da J.R.Videla, generale sanguinario dell’ultima dittatura argentina:
Di fronte al desaparecido, egli come tale, è un’incognita. Se l’uomo sparito apparisse, avrebbe un trattamento X e, se l’apparizione si convertisse nella certezza della sua morte, avrebbe un trattamento Z. Però, fintanto che è desaparecido, non può avere nessun trattamento speciale, è un’incognita, è un desaparecido, non possiede entità, non c’è…non è né morto né vivo, è desaparecido.
Il trattamento del corpo
La ricerca di K. permette di addentrarsi in una società multiculturale, che dovrebbe preservare l’unicità dell’individuo e delle sue origini: il Brasile dittatoriale, invece, si conforma al silenzio. Ovunque vada, il padre si trova a dover decodificare un linguaggio complicato, fatto di inganni e depistaggi: quando gli sembra di avvicinarsi alla verità, si accorge di uno strappo. Ad un anno dalla scomparsa, dopo essere stato a contatto con qualsiasi organismo internazionale, decide di far visita ad un rabbino e, dall’incontro tra i due, nel quale si discute sulla lapide che K. vorrebbe dedicare a sua figlia, nascono delle crepe nella comunicazione: il primo si perde nei precetti religiosi, rifiutandosi di accettare una morte senza il corpo, mentre il secondo – chiaramente saturato dalla burocrazia e dai dogmi – vorrebbe solamente un luogo in cui poter ricordare. K. ricerca in qualsiasi strato culturale, prima chiedendo aiuto nei negozi del quartiere, poi avvicinandosi alla comunità ebraica di New York, finché le sue ricerche non giungono alle orecchie dei sequestratori e cominciano i depistaggi: da questo viaggio infinito, l’uomo imparerà a contare solo sulle proprie gambe.
Il ricordo della Shoah
L’intero romanzo è caratterizzato dai flashback sulla Shoah: inevitabilmente, l’uomo stabilisce un parallelo tra le vessazioni subite dal popolo ebraico e la nuova dittatura brasiliana, fondendo i margini tra passato e presente. Incolpandosi per aver trascorso troppo tempo con la letteratura yiddish, ed essendosi a lungo sconnesso dalla realtà quotidiana, si accorge di non aver creduto all’allarme dei giovani: improvvisamente apre gli occhi non solo sulla realtà brasiliana, ma su quella dell’intero continente. Scoprendo sua figlia, e la vita che lei gli aveva nascosto, il padre sembra anche avvicinarsi a se stesso: lentamente taglia via il superfluo, l’irreale, per cercare di capire cosa stia accadendo nel mondo nascosto della dittatura e dei campi di detenzione. Verso la fine del romanzo, stabilendo un confronto tra la Polonia dei ricordi e il Brasile del quotidiano, si indigna notando “quella strana abitudine brasiliana di rendere omaggio a delinquenti, torturatori e golpisti”, dedicando persino una strada al dittatore Getúlio Vargas: tutto ciò non accadeva nel suo paese natale, in cui “alle strade davano i nomi dei re e dei marescialli” che avevano contribuito ad unificare la Polonia, senza però ricorrere alle torture.
Nell’approcciarsi alla narrazione di Kucinski, così umana da sembrare vissuta in prima persona, si scoprono le vie infinite della banalità del male: soprattutto per i migranti di origine ebraica, che si erano stabiliti in America Latina con la speranza di cercare rifugio e pace. C’è poi un rovesciamento evidente, un’innaturale inversione dei ruoli: il padre costretto a piangere e cercare la propria figlia, come fosse un Ulisse dolorante che compie il viaggio di Telemaco.
Rebecca Cicchetti