L’ossimoro e la catarsi. Su “Mostri tiepidi” di Benoît Gréan
La poesia di Benoît Gréan, in Mostri tiepidi (uscito in Francia nel 2003, poi in Italia nel 2013, tradotto da Massimo Sannelli per Empirìa), coincide con lo sforzo di trasferire sul piano semantico l’inafferrabilità dell’attimo, scovato nella sua purezza all’interno di situazioni di violenza o abbandono. Il poetico, anzi, in forza di una incisione e concisione epigrammatiche, interviene come programma di catarsi, elezione del putrido ad armonia e rivelazione di questa.
La materia e la sua decomposizione
Diviso in quattro sezioni, Mostri tiepidi è interamente attraversato da immagini ricavate dalla sfera di una violenza inebetita e di uno smembramento del corpo che smascherano la condizione collettiva e inarrestabile di decomposizione. I titoli delle sezioni sono indicativi: tutti formati con sostantivo + aggettivo, tre su quattro seguono – come del resto il titolo generale – un plurale generalizzante e, insieme, immagini particolarmente concrete, e aspre, come Mondi crudi o Pelli amare.
Questi elementi – carnalità e plurali universali – si notano del resto già nei primi versi, «Noi squartatori / di voglie inevitabili»: si può dedurre così fin dall’inizio un’idea della vita come relazione (conflittuale) tra la più nuda materialità (evocata qui dagli «squartatori») e una temporalità in cui quella si cala, e da cui viene inevitabilmente modificata. Tale temporalità, funesta e irredimibile, compare poi nel testo sostanzialmente in due forme: o in virtù di un soggetto che agisce (come, nell’incipit, il «Noi») oppure di un universo che per sua architettura prevede da sé la legge (inoppugnabile) della decomposizione della materia.
È in seno a questa seconda energia che si articola la frequenza di immagini molto crude, sadiche, rivolte alla dimensione clinica del deperimento fisico («tumori», «palpebre scucite», «cancro massiccio», «silenzio ematoma», «carnale chi scarna», «soffoca», «pugnalato alla schiena», «moribondi»).
I mostri che sono tiepidi
La “violenza” di Gréan è però anche una violenza in certa misura sociale, o esistenziale, smaterializzata rispetto alla malattia, ma materializzata in storie di marginalità e sospensione – una violenza, cioè, sottile, intesa come incapacità di adattamento agli schemi del mondo. Ne sono rappresentanti figure senza nome descritte nell’individualità dei loro gesti improvvisi/contraddittori («Andava nudo / bel corpo di vent’anni […] la sua prima parola / fu bestemmia»; «Lei vuole / non vuole che si sappia»), o come parte di un insieme (il soggetto di prima persona plurale, gli infiniti presenti totalizzanti) che agisce senza reale incidenza sulle cose, langue, annulla le singolarità che lo compongono («i nostri passi labili», «gesti più sfocati che storia antica», «Alcuni secondi / tra noi immischiati»).
Proprio in quanto diffusa e non epica, in quanto anche psicologica, anche esistenziale, la violenza di Gréan è la decalcomania di uno squarcio che rivela insieme la sfasatura e la bellezza delle cose: alla crudezza del corpo come materia risponde un certo candore convintamente celebrato («ragione sempre alla beltà del mondo»), che nasce al pari della violenza da scatti inattesi e contro-naturali. È qui la ragione dell’ossimoro, prediletto da Gréan al punto da informare anche il titolo: ricorrente in maniera quasi ossessiva e multiforme («gioia madida», «chiaroscuro», «memorie di futuro», «agrodolce», «carezze che spellano», «battono il vuoto», «sfolla una folla»), la struttura ossimorica normalizza la violenza nel senso di stemperarla, ma anche in quello di includerla nello stato delle cose, tenendone così intatta la crudezza; in certo modo, cioè, in modo ossimorico e in dialettica dei contrari, la attenua ed esalta insieme.
La tiepidità di questi mostri è il loro integrarsi nella normalità della vita e insieme il simbolizzarsi in una poesia che porta dal caos all’ordine.
L’epigramma e la catarsi
Lo stile franto e insieme equilibrato cui approda Gréan non è allora solo ricerca estetica ma vero motore significante del testo. È facile immaginare la violenza descritta finora come magma (Valerio Magrelli, che firma la Nota introduttiva, scrive: «In tutto il libro si susseguono espressioni di dissidenza e caos nei riguardi dell’ordine nomato, ordine del discorso come ordine delle cose») su cui l’arte interviene, in certo modo armonizzandolo.
Le poesie di Gréan sono poesie molto brevi, con strofe nella maggior parte dei casi di massimo tre versi, tutte progettate su meccanismi a coppia, a specchio («Corpi belli pasciuti / esposti fissi / al sole sciocco // e le vostre chiacchiere / più piatte di spiaggia / domenicale») oppure su intuizioni giustapposte (e spesso, come detto, ossimoriche) che ricordano a volte gli andamenti lapidari ed epifanici degli haiku («Immobile e faccia / al mare // captando l’eco dei mondi crudi / bagnati di tempesta // un vecchietto svende gli anni // la gioia madida»), ma in ogni caso composte attraverso una sicura gestione del suono e della metrica.
Forti anche dell’assenza di punteggiatura, le poesie di Mostri tiepidi sono perciò epigrammi sospesi in uno spazio interumano intangibile, che si alimenta, però, delle manifestazioni più crude e violente della carnalità e del suo smembramento. L’ossimoro agisce eccezionalmente non come evidenza dei contrasti ma come loro pacificazione, nonostante (e proprio per) il manifestato sadismo; è lì che si trova, mi pare, la catarsi su cui Gréan fabbrica il proprio senso del poetico: la violenza è accolta intatta e nella sua più nera schiettezza; l’epigramma la poeticizza, nomina il caos e addomestica così il disordine nell’ordine.
Antonio Francesco Perozzi