Chissà se Philip K. Dick scrivendo Il cacciatore di androidi avesse davanti agli occhi Gli automi di E. T. A. Hoffmann, racconto presente nel primo volume de I fratelli di Serapione uscito ad agosto scorso per i tipi de L’orma. Domanda pleonastica, eppure la casa di Sebastian, l’ingegnere genetico così ben disegnato da Ridley Scott nel mitico film Blade Runner, ne è piena, di automi e di nostalgici replicanti. Domanda a cui nessuno risponderà, ma nel tentativo d’individuare un punto di contatto fra i due scrittori, mi sembra di rintracciare intatta una doppia intenzione in entrambi: un’intenzione contestatrice, contro l’“è così”, e un ambire a una prospettiva di possibili-impossibili, di spazi sconfinati, che trasportano i lettori in universi laterali.
Nel racconto di Hoffmann – scritto tra il 5 e il 15 gennaio 1814 -, lo spunto di un automa vestito alla turca, “un’opera d’arte” che risponde alle domande dei curiosi attratti dal fenomeno, dà agio a Ludwig e Ferdinand, amici già presenti nel racconto-saggio Il poeta e il compositore, di trattare l’arte e la sua relazione con la tecnica, con la Natura e l’interiorità individuale. Il Turco parlante invece è legato al tema del magnetismo come lettura della psiche umana che influenza il comportamento degli individui. “È come se l’essere che dà le risposte fosse in grado, con mezzi a noi ignoti, di esercitare un’influenza psichica, insomma di entrare con noi in un rapporto spirituale tale da comprendere per intero il nostro stato d’animo, addirittura tutto il nostro mondo interiore”.
Ludwig attribuisce all’automa facoltà sulla scia del mesmerismo e del magnetismo animale, anticipando la psicanalisi attraverso un lessico molto vicino a quello della psicologia del profondo. Anticipazione che torna in relazione al sogno: “È come nei sogni, quando non ci rendiamo conto che la stessa voce sconosciuta che ci istruisce su cose a noi ignote, proviene in realtà da dentro di noi dicendoci parole comprensibili.” Racconto volutamente frammentario, considerato dal finale aperto che ben s’addice alla volontà dell’autore di rifiutare la sintesi. Di una cosa sono certa, che lo sguardo del replicante di Dick, così vitreo nella fotografia di Scott, somiglia molto allo sguardo del Turco parlante di Hoffmann, stesse pupille inquietanti da prendere in prestito le parole di Macbeth: “Tu non hai sguardo in quegli occhi / con cui fissi?” Pupille perturbanti (Freud prenderà spunto dal racconto hoffmanniano Uomo della sabbia per illustrare il concetto di perturbante).
Casa editrice che si è data un compito alto, L’orma, pubblicare e curare – laddove curare implica “una sistematica annotazione delle pagine dell’autore per collocarle nel loro contesto storico-letterario e accompagnarle con vivaci affondi ermeneutici” – l’opera omnia di Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann, scrittore, musicista, disegnatore e giurista tedesco che nel 1813, in onore di Mozart, a 37 anni cambierà il terzo nome di battesimo in Amadeus, firmandosi da allora E. T. A. Hoffmann. Scrittore non certo precoce visto che fu solo nel 1809, a 31 anni, che iniziò con il racconto Il cavaliere Gluck. Un’avventura editoriale che prevede 10 volumi di cui 5 sono già in libreria e a marzo 2021 uscirà il secondo tomo dei fratelli di Serapione.
Finora, stiamo parlando di 2250 pagine editate con cotanta cura. Curatela affidata a Matteo Galli che in una godibilissima introduzione – breve e utile assai -, ci racconta come, sulla scia di Ludwig Tieck, Hoffmann decida di pubblicare una raccolta di ventotto testi in gran parte già pubblicati su riviste e almanacchi. “E, come aveva fatto anche Tieck, a fungere da collante fra i vari testi, Hoffmann scrive ex novo la cornice” – un sesto del testo complessivo – che riporta, fra un racconto e un altro, i dialoghi dei membri della confraternita “ai quali Hoffmann, nella finzione, attribuisce l’autorialità dei vari testi”. Ci illustra il principio serapiontico, Matteo Galli, secondo cui s’è “visto per davvero” ciò che s’intende raccontare, il che implica un’interiorizzazione del vissuto che renda conto non solo dell’aspetto materiale, ma anche fantastico e spirituale della realtà. Di osservare, vedere, immaginare parla Hoffmann in una lettera del 1821, seguendo una progressiva “emancipazione dal dato fattuale”.
Ma la grandezza di questo elegante volume di fiabe (vi è lo Schiaccianoci e il re dei topi che Cajkovskij trasformerà in balletto) e racconti, sta nel suo piglio enciclopedico capace di riassumere la cosiddetta “età di Goethe”. Enciclopedismo che si ritrova nella varietà dei generi letterari presenti nella raccolta, nella impressionante quantità di intertesti, antichi e moderni, cui Hoffmann attinge sia nelle storie raccontate dai confratelli, sia nella cornice. Intertesti, data la poliedricità dell’autore, non solo letterari, ma anche musicali e di arte figurativa. E, infine, squarci enciclopedici in merito a temi, come quello della soglia, della manipolazione, della relazione fra teatro e terapia, della sfida. Al centro del libro, comunque, sempre l’arte, in una visione che va dall’artigianalità al geniale ai limiti della follia.
Monica Perozzi
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