«Ho un opinione sulla quale non sarà d’accordo la maggior parte degli scrittori, e cioè, e lo dico veramente perché lo credo: scrivere è un lavoro. Scrivere è un lavoro, e come ogni altro lavoro deve essere fatto bene. Bisogna farlo bene. Tutto quello che è sublimato a proposito della missione dello scrivere, della scrittura in se stessa, mi sembra inutile, che non valga la pena. Facciamo noi scrittori un lavoro – alcuni meglio di altri – e questa è la nostra missione. Non rendiamo la scrittura una cosa sacra, perché se rendiamo sacra la scrittura dovremmo anche considerare sacro un paio di scarpe che ha fatto il calzolaio. Anche quello è un lavoro».
Qualche tempo dopo l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura, così, José Saramago rifletteva, in un’intervista, sul mestiere di scrivere. Scrivere è un lavoro, diceva. E la riflessione è coerente con quanto professato nel tempo nelle sue opere: un lavoro d’artigianato, di cesello, di lima. La parola ricercata a servizio dell’intenzione civile, perché quello era il dato che maggiormente premeva sulle motivazioni dello scrittore portoghese che, dopo aver trovato nella scrittura orale la sua cifra stilistica, aveva votato la sua intera produzione letteraria all’impegno civile, politico e morale.
Ed è proprio di quest’impegno che si costituisce la produzione teatrale di Saramago. Nella Nota introduttiva del volume Feltrinelli che raccoglie le quattro opere per il palcoscenico scritte dal portoghese, è fin da subito dichiarato che queste siano state scritte per “commissione sociale” e non per “imperiosa necessità creativa”.
L’edizione italiana del teatro di Saramago intitola La seconda vita di Francesco d’Assisi e in sottotitolo vi è aggiunto e altre opere teatrali, forse una piccola furbata dell’editore per provare ad attirare l’attenzione di lettori che hanno già subito il fascino di opere come Caino e il più celebre Vangelo secondo Gesù Cristo. C’è però da segnalare che l’opera più riuscita delle quattro non è quella che presume un ritorno al mondo d’oggi del santo d’Assisi ma quelle (La notte e Cosa ne farò di questo libro?) in cui, proprio come quando ragionava sul mestiere di scrivere, Saramago mette in scena i dilemmi dell’azione intellettuale.
Tra il 1977 e il 1978 la direttrice di un teatro di Lisbona contattò José Saramago per chiedergli di scrivere un testo teatrale ambientato nella redazione di un giornale. Lo scrittore portoghese, che in quel momento era solo agli esordi della sua esperienza da scrittore, seppure avesse da poco pubblicato Una terra chiamata Alentejo che ne avrebbe caratterizzato lo stile, rifiutò l’incarico. Le ragioni del rifiuto, secondo il portoghese, erano anche date dallo stupore che l’aveva sopraffatto quando ricevette quella proposta per un ambito che non aveva mai frequentato. Però, solo due giorni dopo, si mise alla ricerca di Luzia Maria Martins (questo il nome della direttrice teatrale), per accettare l’incarico: Saramago non aveva risolto le sue perplessità ma, riflettendoci, aveva avuto un’idea: avrebbe raccontato la notte tra il 24 e il 25 aprile del 1974, quella in cui, a causa di un colpo di stato, la redazione del giornale si sarebbe divisa tra giornalisti democratici e giornalisti obbedienti o con tendenze fasciste.
Questo fu quindi il tema de La notte, che andò in scena nel 1979.
Il secondo testo teatrale venne scritto nel 1980, in occasione del quarto centenario della morte di Luís de Camões, autore de I Lusiadi (poema fondante della poesia e della letteratura portoghese, ormai dimenticato, o quantomeno bistrattato, dai lettori e dalla critica in Italia). Per evitare di incorrere nel rischio di perdersi tra le centinaia di luoghi comuni e immagini inflazionate del padre della lingua portoghese, Saramago decise di andare a indagare un aspetto sempre poco considerato nella vita di uno scrittore: il momento in cui per la prima volta questi si mette, col libro sottobraccio, a cercare un editore.
Saramago scrive: «L’opera Cosa ne farò di questo libro? voleva essere la storia di questa dolorosa peregrinazione in un Paese oscuramente assorto “nel gusto dell’avidità e nella rudezza di un’austera, spenta e vil tristezza”».
L’occasione per scrivere La seconda vita di Francesco d’Assisi arrivò sette anni dopo la scrittura de La notte. In seguito a un viaggio ad Assisi, Saramago rimase particolarmente colpito dalla presenza di banchetti in cui si vendevano rosari, statuine, stampe, libri edificanti, santini, scapolari, crocifissi. Tutta quella chincaglieria mise in moto l’immaginazione dello scrittore che, in quel luogo aveva sperato di vedere perpetuato il messaggio del santo che a cavallo tra Cento e Duecento aveva operato in piena povertà. E poiché «è noto quanto i veri atei siano scrupolosi in materia di etica religiosa», Saramago decise di immaginare un ritorno del santo all’interno dell’Azienda francescana al solo scopo di ristabilire la Regola delle origini.
L’ultima esperienza drammatica di José Saramago è del 1993, quando la direzione dello Städtische Bühnen Münster, dalla Germania, lo invitò a scrivere un’opera sulla rivoluzione spirituale e politica dell’anabattismo. Il portoghese dichiara di aver esitato inizialmente a questa proposta, per la scarsa conoscenza che aveva della materia, ma accettò e prese l’impegno. L’idea del dramma scaturì man mano che gli studi sulla “riforma radicale” procedevano: alla sensibilità del portoghese appariva sempre più assurda la violenza che poteva scaturire intorno alla difesa di logiche diverse legate allo stesso Dio; e tale violenza aveva l’impressione si stesse ripetendo con la stessa forza nel suo presente. Infatti scrive: «Non comprendevo, e continuo a non comprendere, perché, in nome di uno stesso Dio definito Creatore e Misericordioso, gli esseri umani continuino a trucidarsi implacabilmente l’un l’altro. Che si attendano di entrare nello stesso Paradiso obbligando Dio, unico per tutti (o forse che nell’universo c’è più di un Dio?), a scegliere fra protestanti e cattolici, fra cristiani e musulmani, fra buddhisti e animisti, fra monoteisti e politeisti?…».
La produzione teatrale del premio Nobel per la Letteratura è certamente un tassello minore all’interno del suo corpus di opere, ma qui, forse più che altrove – poiché elemento di maggiore evidenza – il rigore della penna di Saramago si esprime proprio per quelle caratteristiche che fanno di lui uno dei migliori interpreti del mestiere di scrivere degli ultimi decenni, cioè di un autore saldo e deciso nel cogliere l’importanza civile, morale e politica della letteratura.
Antonio Esposito
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