È spaventoso e da ridere insieme: l’8% di tutte le emissioni che tanto combattiamo o dovremmo combattere, viene prodotto nei grandi allevamenti di latte o carne, vacche e simili insomma, che si concedono rutti e peti altamente inquinanti. Che fare? Una soluzione potrebbe essere quella di mangiare tutti meno carne, un’altra è far ingurgitare alle suddette vacche carbonio o altri agenti chimici per ridurre la flautolenza. Sicuramente tra le due, è più verde la prima, visto che di economia verde si parla.
Un’economia capace di migliorare il benessere umano e l’equità sociale, riducendo contestualmente i rischi ambientali e le scarsità ecologiche, stando alle Nazioni Unite. Invece l’Ue sottolinea la crescita e la creazione di posti di lavoro eliminando la povertà, investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta. E l’Ocse parla di green growth -crescita verde -, cioè la promozione di un’economia che sappia ridurre l’inquinamento, le emissioni di gas serra e i rifiuti, assicurando che il patrimonio naturale continui a fornire le risorse e i servizi ambientali su cui si basa il nostro benessere. Esther Mertens – giovane donna nata trentadue anni fa a Lovanio, al centro delle Fiandre -, ingegnere biologico alla South Pole ad Amsterdam, è proprio di crescita verde che si occupa. Lei e una decina di colleghi formano un team affiatato che sviluppa progetti sostenibili in Europa. Vale a dire dove c’è la più alta concentrazione di gas serra. La South Pole conta 500 dipendenti tra ingegneri, biologi e agronomi più un numero cospicuo di lavoratori “commerciali” ché l’azienda in questione è privata ma anche illuminata e lungimirante visto che gran parte dei ricavi li reinveste in capitale umano per creare intelligenze che accelerino la trasformazione di tutti i settori. Che sono: Energia, Industria, Rifiuti, Agricoltura, Foreste e utilizzo della Terra. Tutti i paesi sviluppati ogni anno devono rapportare le proprie emissioni come da Convenzione Onu del 1992. I paesi in via di sviluppo invece finora non erano obbligati, ma ora che a sostituire il protocollo di Kyoto entrerà in vigore l’Accordo di Parigi del 2015, nessun paese del pianeta sarà esentato da quest’obbligo. Chi non rispetta le regole, rischia molto, un tracollo economico perché le sanzioni portano a svalutazioni e relative fughe dei capitali che vanno a concentrarsi altrove. Parlandomi del suo lavoro, Esther nomina due parole fondamentali: evitare e ridurre; stiamo parlando di aziende che inquinano molto con le emissioni di CO2, pertanto quando non riescono né ad evitare né a ridurre, come estrema ratio possono comperare crediti di carbonio, cioè si danno a progetti di forestazione o altre attività virtuose per il clima. Finora il CDM, acronimo di Clean Development Mechanism, prevedeva l’acquisto di crediti per chi non riusciva a ridurre le emissioni del 100%. Allora acquistava un’azione virtuosa, come piantare alberi, ma più che altro in paesi in via di sviluppo dove le emissioni sono basse quindi risultava un’azione virtuosa al quanto inutile. Esther è convinta che è qui in Europa che c’è da fare molto, ché è qui, nel vecchio continente che vengono emesse alte percentuali di CO2.
Diversi i progetti di cui Esther e i suoi compagni di lavoro tengono le fila: si tratta di localizzarli su mappa, specificare quali variazioni di pratiche attuare e relativo impatto sul territorio. Territorio di cui detengono il polso vari partners – per esempio con la Soil Capital stanno affrontando un progetto delle variazioni delle colture in Francia e Valonia. Cento ettari possiede in media ogni contadino in Francia e sessanta in Valonia, per un totale di terra da volgere ad altre coltivazioni che non sia quella del mais, di ottomila ettari. E’ che prima di coltivarlo, il mais ogni contadino da che tempo è tempo predispone l’aratura, operazione che comporta una quantità impressionante di sprigionamento di CO2. Ad Esther & Co., il compito di suggerire un’alternativa all’aratura, con la stessa sua efficacia nel rinvigorire la terra, un’alternativa al sapore di antico, la variazione delle colture.
A questo punto entra in campo la Soil Capital che detiene i contatti con i contadini, li conosce, sa che due su tre gestiscono un’azienda a carattere familiare, sa le loro riottosità, conosce il bisogno di un guadagno certo. E di fatto ogni contadino, se non indulge nella tecnica dell’aratura, il che lo mette in condizione di ridurre dalle 1000 alle 3000 tonnellate di CO2, per contratto, riceve 27.5 euro a credito per ogni ettaro di terra “risparmiato” dall’aratro.
Non solo. E’ comunque il minimo, una debole restituzione alla Natura che abbiamo fin qui violentato. Pensate che in Portogallo, è stato avviato un processo di protezione dagli incendi, dove si tratta di “assistere la natura”, dopo che il paesaggio è stato talmente variato dall’uomo che la natura da sola non ce la fa più. Un’altra piattaforma riguarda la “rigenerazione assistita”, che consiste nel preparare il terreno lasciando alberi “pionieri”, e poi evitare di piantare, lasciando che cresca una vegetazione spontanea, sicuramente più resiliente. Ché è buona e obbligata prassi che ogni progetto non abbia impatti negativi in altri settori, fondamentale. Oggi è trendy tra le aziende poter scrivere sulla confezione dei prodotti “climate neutrality” o “climate net.0”, soprattutto le aziende di tecnologia come Google o Microsoft, comprano crediti nella speranza di risultare a zero emissioni. Comunque, siamo agli inizi di una riconversione mondiale dell’economia secondo un dettame ecologico, ecologia, parola coniata nel 1866 dal biologo di Jena, Haeckel, sta a dire che forse, magari obtorto collo, il mondo prende atto di doversi affidare allo studio dei rapporti fra gli organismi viventi e l’ambiente circostante.
Monica Perozzi
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