In un’altra vita ero fatta di corteccia, della mia combriccola di arbusti ero quella più in alto. Poi sono arrivate la motosega e la reincarnazione, là in Valsamoggia mi hanno rivestita in multistrato e imbottita di poliuretano e sono finita a Bollate.
Lei è quella che mi siede sopra.
Ha ancora addosso il pigiama della notte prima e la vestaglia che ha afferrato per ripararsi dagli spifferi della mattina, gli stessi spifferi che ha lasciato entrare dalla finestra volutamente lasciata aperta di notte. Lo fa perché le piace sentire quel po’ di freddo che la costringe a tirarsi la coperta fin sopra la testa; quell’essere risucchiata dalla notte è una delle sue perversioni più intime, immagina se qualcuno entrasse e vedesse solo un cumulo di lenzuola e la mia vita che non spunta dal letto, ma sta nascosta, mimetizzata nella notte, risucchiata dall’oscurità. Lo fa anche con me quando, spalanca le finestre e sprofonda sotto la coperta, mi fa accapponare il velluto.
Ha la testa bassa e gli occhi puntati sul libro che sta in bilico sulla cima del suo grembo rotondo. È una storia di parole e fatti scritti senza ritmo e proprio per questo le pare spietata.
Si distrae nel tracciato nebuloso dei suoi pensieri, sposta gli occhi dalle righe della storia, poco più in alto, vede i due ragni aggrappati al bordo della carta giallastra.
Guarda le piccole zampe schiudersi, farsi lunghe e distendersi in aria, la pelle rosacea del palmo e le righe in verticale, i tagli orizzontali delle falangi. Il percorso delle linee, del cuore, della vita, della salute, il punto perfetto dove si incontra la sapienza delle fattucchiere, le romene dai foulard di paillettes e gli occhi cerchiati di kajal. Quelle del «vedi qui la linea si interrompe, qui invece si interseca il cuore con la salute; ma bela mia, ci vogliono altre venti lire per sapere come va a finire».
D’un tratto si ricorda gli anni in cui incontrava quelle veggenti insieme a sua madre, quando sua madre, disperata di vita andava dai maghi a farsi dire quale sarebbe stato il suo anno più felice, se ce ne sarebbe mai stato uno.
La data che venne fuori era il 1999, l’anno in cui avrebbe compiuto sedici anni, quello della nascita dell’euro e quello in cui un certo Alex Britti ripeteva Oggi sono io. Quello sarebbe stato l’anno della felicità.
Lo aspettarono a mani giunte, lei e sua madre e fu scritto anche sulla parete della loro casa, col gesso giallo.
Quando arrivò, in quelle prime settimane di gennaio, sua madre spargeva candele per tutta la casa, di notte ballava nuda senza musica, la mattina preparava colazioni abbondanti, ma aveva sempre il sorriso tirato mentre aspettava, che la felicità arrivasse perché era il 1999, l’anno in cui le avevano promesso sarebbe arrivata.
Quell’anno lei vide le mani di sua madre fare tante cose, c’erano i semi dentro la terra, i capelli da tagliare, il rossetto sulle labbra, i piatti di arrosto e patate. C’era l’attesa della felicità, che era già una specie di felicità in sé, farsi ogni giorno leggermente più piccola, modesta, fino piano a piano a scomparire. Nell’anno della felicità, prima di arrivare ad annodare una corda sua madre fece tante cose con quelle mani.
È successo quattro mesi fa, lei è andata in bagno, poi è tornata in salotto, era molto agitata, qualche minuto dopo di nuovo, dal bagno è arrivato un urlo greve e lungo, come quello di certi animali che stanno per morire e poi ha seguito una risata. Lei poi è venuta in cucina ha trafficato con delle cose tipo l’agenda, il bidone della spazzatura, certe scartoffie, ha fatto delle telefonate e poi si è seduta su di me, ha scosso la testa, ha detto no, no no, non è possibile, non io, non ora.
Lei è quella sprofondata nel mio rivestimento, ha smesso di leggere, ma continua a guardarsi le mani, da vicino hanno le unghie storte e zigrinate, pezzi di smalto attaccati alle cuticole, della terra sotto gli angoli del mignolo.
Lei guarda nel vuoto, oltre l’inganno dei suoi pensieri, arriva indietro di qualche settimana fino al giorno in cui qualcuno le ha detto, questo è l’anno della tua felicità, è questo, è arrivato. La cerca dentro, fa un tuffo in quegli anfratti bui e impolverati, con le mani cerca di afferrare qualcosa che non sia la sensazione di un libro crudele, l’ossessione morbosa per la poltrona di sua madre, l’assenza di qualcuno.
E questa vita che si porta in grembo e che tra poco nascerà, ora è immersa nell’oscurità, come tutti noi quando dormiamo, e in un certo senso ora non esiste ancora questa vita, ma esisterà tra poco, questa vita che altro non è che un essere umano che aspetta le sue mani, e dovrà avere delle mani capaci di afferrare, fare, proteggere, curare.
Questo vorrei dirle, se l’aria potesse traforarmi la stoffa, e anche che, di peggio c’è solo un motosega che ti taglia in due e ti rende poliuretano espanso elastico. Di peggio, c’è solo quello.
Lei è quella che si alza, lascia indietro la forma vuota del suo culo nel mio rivestimento, lentamente striscia verso le finestre, apre tutte le tende, fa entrare un po’ di luce.
Chiara Cerri
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