Racconto: Disegni – Jacopo Zonca
Gabriele entra nella sua stanza, sospira, lentamente chiude la porta, e in quel momento tutto cambia.
La rabbia, la tristezza, la delusione che stamattina gli hanno infilzato il cuore, in quello spazio non esistono più. Non c’è il peso dei suoi sedici anni, ancora troppo pochi, eppure così pesanti, tanto pesanti da sfinirlo. Non ci sono i compagni di classe che lo evitano. Non c’è la professoressa Carpi, con la sua bocca storta, i capelli grigiastri e il collo rugoso sopra al corpo racchiuso in quei vestiti vecchi, da signora anziana. Non c’è Jessica, anche se gli piacerebbe molto che ci fosse, gli basterebbe uno sguardo di quella ragazza, una scintilla capace di accendergli lo spirito, anche per una frazione di secondo. Non c’è la noia del viaggio di ritorno, in quell’autobus stipato di ragazzi e ragazze, saturi di ormoni, stanchezza e fame dentro a quel mezzo lurido e decrepito.
Quando Gabriele entra nella sua stanza e chiude la porta alle sue spalle, la vita torna nella direzione giusta, non scorre davanti a lui su un binario diverso. Nella sua camera, tutto si allinea, torna in equilibrio.
È una piccola stanza, qualche poster di film d’azione che forse conosce solo lui, alcuni dvd ammonticchiati sul comodino insieme a cd masterizzati e mostriciattoli di plastica trovati in sacchetti di patatine. Sulla scrivania macchiata di inchiostro, alcuni fogli di diversa grandezza e consistenza, ancora intonsi, circondati da mozziconi di matite di vari formati, carboncini e un set di piccoli contenitori di inchiostro china di diversi colori.
Sulle pareti azzurrognole sono appiccicati disegni di qualunque tipo. Uomini, donne, creature, paesaggi. Le illustrazioni che gli sono venute meglio. Tutto in bianco e nero, niente colori. Non gli piace contaminare l’emozione con l’effetto facile che il colore può avere sugli occhi di chi guarda quegli schizzi.
Quando Gabriele disegna si sente libero, ma quando a scuola prende un brutto voto, sente che il disprezzo per se stesso aumenta, fino a diventare insopportabile, allora deve ricominciare a disegnare, deve diventare sempre più bravo, deve dimostrare a se stesso di avere diritto al suo posto nel mondo, al contrario di tanti altri, quelli che vivono senza consapevolezza, e che lui odia. Gabriele è diverso, ha uno scopo.
Ma oggi ha preso quattro in grafica, un voto dato da quella stronza della professoressa Carpi, e mentre gli altri compagni di classe ridacchiavano, Gabriele avrebbe voluto scomparire, o bruciare tutto quello che gli stava attorno, proprio come in un fumetto.
Fa freddo, molto freddo dentro a quella stanza, Gabriele esce per un attimo, cammina velocemente nel corridoio e si dirige a tutta forza in bagno, dove senza accendere la luce, acchiappa una piccola stufa elettrica, per poi correre in corridoio, con il filo bianco dell’apparecchio che ballonzola come il cadavere di un serpente, tornare in camera, chiudere la porta e attaccare la spina della stufetta alla presa di corrente.
La luce sul soffitto va a incorniciare l’immagine del ragazzo davanti allo specchio dell’armadio. Indossa ancora i vestiti che aveva a scuola: una felpa nera con cappuccio e un paio di jeans larghi, che ora coprono i suoi piedi come delle gonnelle sfilacciate. Guardandosi, Gabriele si piace, si dà una grattata al ciuffo di capelli castani sopra a qualche brufolo in fronte.
Il ronzio elettrico dello scaldabagno lo rassicura, fuori dalla finestra il buio di un pomeriggio di inizio dicembre, qualche minuscolo fiocco di neve illuminato dalla luce dei lampioni va a depositarsi sull’asfalto bagnato.
Fra lui e il mondo fuori c’è il confine, la protezione dei muri e dei vetri spessi della sua stanza.
Ora lui è dentro, dentro alla sua casa, dentro alla sua tana, al sicuro.
Si siede vicino alla scrivania, sente la pelle distendersi e dilatarsi grazie all’aria calda sparata al massimo dalla stufa elettrica. Comincia a spogliarsi, lentamente, si vuole togliere quei vestiti che indossa per andare in quella scuola che non fa altro che deluderlo ogni giorno di più. Eppure all’inizio non era così. All’inizio i voti erano sempre buoni.
Ora Inizia a disegnare e tutto si calma. Sente la sua mente distendersi, tutto diventa morbido, lo spazio intorno a lui assume una forma amica.
Sorride e continua a disegnare, si affida alla sua mano, si lascia guidare dalla vertigine che lo avvolge e lo stringe quando comincia a creare. Tutte le sue emozioni che si fondono insieme e lo colpiscono al petto come un cazzotto, facendogli sentire la vita che scoppia nelle sue vene.
Un triangolo, con alcune linee più corte sui lati che si allungano verso una piccola circonferenza al centro. Un disegno che sembra quasi un simbolo esoterico, anche se Gabriele non sa dargli una definizione precisa. Sente solo il piacere che si eleva e che fa calmare tutto il resto, placa la sua angoscia, lo fa camminare in equilibrio ma in bilico su quel buco nero. La vita dovrebbe essere sempre come questo istante di piacere, sarebbe bello poter disegnare per tutto il giorno.
Vorrebbe che quell’attimo di estasi si dilatasse all’infinito, un tempo pieno di calore, sicurezza, astrazione, pace, felicità, emozioni che vorticano dentro la sua mente ed elevano il suo spirito. Un rito, che riguarda la creazione, il progetto, i disegni, la vita.
Con un fazzoletto pulisce il tratto e tampona le linee, cerca di rendere più pulita l’illustrazione.
Ha voglia di farne un altro, oggi si sente particolarmente illuminato. La rabbia che ha covato per tutto il giorno ora si è trasformata in una vampata di ispirazione.
Un cerchio, al suo interno un piccolo rettangolo e alcune X. Questa volta la sua mano è sicura, ferma, il disegno riesce perfettamente, le linee sono precise e non ci sono sbavature.
Ancora quell’attimo di godimento, questa volta più forte, totalmente abbagliante. Una luce bianca seguita dal brivido della consapevolezza di essere bravo, un terremoto che riesce a coprire ogni cosa, una fessura in cui la sua anima viene risucchiata e si perde in quell’attimo di incanto.
In quell’istante, a Gabriele sembra di poter toccare la luce, di poterla accarezzare come fosse qualcosa di solido, di concreto, di unto quasi.
Felicità. Quella che prova Gabriele in questo momento è la pura e semplice felicità, la sente come se avesse appena ingoiato un barile di acqua fresca in un pomeriggio di un’estate torrida.
Chiude gli occhi. Ora tutto è diverso, gli sembra di essere in un’altra dimensione, è lontano non solo dai suoi pensieri, ma anche da se stesso, naviga con gli occhi chiusi, trascinato dalla corrente.
Gode. Gode talmente tanto da non accorgersi del rumore e della porta che si apre.
Sua madre è lì, è entrata perché deve sistemare alcune felpe e alcune magliette appena stirate nell’armadio del figlio, oggi è rientrata a casa prima. Ma perché? Non doveva stare fuori fino all’ora di cena!? Perché deve rovinare il momento? Quanto tempo è passato da quando ha cominciato a disegnare? Dieci minuti? Un’ora?
Dentro a quella stanza il tempo ha un’altra valenza.
Gabriele spalanca gli occhi, si è dimenticato di chiudere la porta a chiave, eppure, cazzo, non si dimentica mai.
Mai… mai. Mai!
Però oggi è una giornata in cui le cose non sono andate per il verso giusto, ma ci sono i disegni, quelli restano.
La madre osserva i disegni, quei simboli sulle gambe sanguinanti di suo figlio, i jeans abbassati fino alle caviglie, la carne bianca e molle che Gabriele ha inciso con la punta di una lametta da rasoio che ancora tiene fra il pollice e l’indice della mano tremante.
In una frazione di secondo, alla madre torna in mente Gabriele da piccolo, quando girava per casa vestito solo con un paio di mutandine, ma ora quello che ha davanti è un ragazzo con la barba appena accennata, gli occhi sconvolti e dei tagli freschi e sanguinanti sulle gambe.
Gabriele butta a terra la lametta e in tutta fretta cerca di riabbottonarsi i pantaloni, il tessuto dei jeans che assorbe alcune gocce di sangue mentre ancora la madre fissa quelle ferite.
Gabriele vorrebbe… cosa vorrebbe fare? Chiedere scusa?
Non lo sa nemmeno lui, adesso tutto quello che riesce a fare è guardare sua madre, con dispiacere, spaesamento e una punta di rabbia in quell’istante che congela ogni cosa.
Forse ha solo voglia di chiedere perdono, ma ora tutto è immerso nel silenzio.
Jacopo Zonca