A volte per (ri)scoprire davvero un paese e i suoi abitanti e silenziare facili stereotipi, approssimazioni interpretative e sbrigativi servizi televisivi, servono un buon libro e una lettura franca, schietta. Per riscoprire il Brasile oggi, per auscultarne il battito profondo di questi ultimi vent’anni e andare oltre il ripetitivo storytelling (parola tanto cara a questa nostra contemporaneità), che ci subissa e irretisce, serve leggere Le vite che nessuno vede, primo libro pubblicato in Italia di Eliane Brum, giornalista nativa di Ijuí, nel sud del Brasile, che collabora, tra gli altri, con Internazionale, El País e The Guardian.
Opera corale e polifonica, Le vite che nessuno vede (selezionato per il National Book Award 2019) è una raccolta di reportage narrativi pubblicati dal 1999 in poi, in cui le vite di tutti diventano la vita di uno, perché il carico di angoscia, sofferenza e dolore degli ultimi, degli abbandonati, degli indigenti, è oggi come ieri sempre identico a sé stesso e ugualmente spartito, sebbene rivestito con abiti differenti e diversamente raccontato.
Intenzionata a tratteggiare il panorama umano di una società profondamente stratificata e classista, che all’esterno spesso si riflette in una visione stilizzata e semplificata, sondandone i mali repressi, gli umori più oscuri e i rituali atavici che scandiscono le stagioni in un carillon di giorni fuori dal tempo, la Brum non si perde nella retorica romanzescamente abusata (e un po’ autocelebrativa) della denuncia della miseria, condita da un trito di ricamato pessimismo e afflizione, ma recupera il materiale narrativo e lo arricchisce, lo sublima attraverso una prosa attenta e misurata, colorita e vigorosa.
Nonostante la complessa densità delle vicende descritte, la scrittura della Brum scorre via liscia, puntuale e raccolta e la sua penna, a mo’ di tintinnante sismografo, restituisce le ondulazioni lievi delle voci, delle smorfie, delle lacrime, meste e trattenute, dei suoi interlocutori.
La forma e lo stile abbracciano allora il contenuto, lo incalzano candidamente sino a costruire un surplus di realtà che si afferma e si offre attraverso le pagine sotto una luce rivelatoria, cucendo una tela di re-significazione sulle cose e sui fenomeni. La giornalista brasiliana, convinta che il «Brasile è un paese che esiste solo al plurale», non si limita a descriverlo come fosse un monolite compatto, omogeneo e statico, già tutto visto e conosciuto, bensì cattura con scrupolosità le numerose e variegate sfaccettature dei tanti “Brasili” che coesistono precariamente uno al fianco dell’altro.
Con passo discreto e sguardo attento il lettore è così guidato al di là del proscenio, nel pieno di quel fitto e ingarbugliato dedalo di vite invisibili e però pulsanti sotto la coltre: come quelle delle levatrici dell’Amapá, donne unite e solidari che nel ventre umido dell’Amazzonia non hanno mai smesso di interrogare la natura e di cogliere nei segni oracolari della foresta le parole segrete dell’unico linguaggio di cui hanno davvero bisogno. Radicate avatavicamente ai ritmi naturali e fisiologici di nascita, vita e morte, Dorica, Jovelina, Rossilda, Tereza e e molte altre hanno messo al mondo generazioni intere di bambini e bambine; diventati poi a loro volta madri e padri, hanno poi fatto nascere i figli e le figlie di queste madri e di questi padri, sempre a piedi, sempre senza alcuna pretesa, sempre l’una al fianco dell’altra, abilissime a destreggiarsi nell’arte del silenzio, della pazienza e della riconoscenza.
Spostandosi senza soluzione di continutià dal polmone verde e seriamente minacciato dell’Amazzonia sino alle periferie più estreme delle megalopoli, la Brum ha modo di sostare e di raccogliere testimonianze anche in altri luoghi deputati alla reclusione e alla sofferenza: come la casa di riposo São Luiz, rifugio che ospita coloro che sono stati espulsi dalla realtà perché troppo vecchi per tenere testa a una società in cui il massimo imperativo è correre e non ha tempo per prestar loro attenzione. Qui troviamo Sandra, Fermelinda, Guilherme, Noêmia, persone che, proprio nel momento in cui sono state gentilmente accompagnate alla porta della loro esistenza quotidiana, hanno riscoperto un’insperata voglia di esserci, vivere, divertirsi e amare ancora, magari per l’ultima volta, rimandando per un po’ il tempo del riposo defintivo.
Lo stesso desiderio di preservare la propria identità e le proprie idee spinge a battagliare Ailce, che anche di fronte a un cancro ormai mortale e galoppante lotta con ogni centrimentro della propria pelle, come fosse una giovinetta, per non arrendersi e mantenersi vigile e dignitosa sino alla fine, e poi João e Raimunda, che nel loro piccolo non chiedono altro di potere continuare a vivere in pace nella loro terra, e fanno di tutto, tra sacrifici impensabili e sofferenze quotidiane, per difendere quel limbo di alberi e fiumi che in molti bramano per potere e ricchezza, alla ricerca di una giustizia che pare essere divenuta ombra inafferrabile, principio fondamentale trasformato in miraggio di cui si parla forse troppo e a vanvera e che tuttavia risulta inapplicabile quando invece ce ne sarebbe più bisogno.
Abile a trovare parole che non confinano le esperienze degli uomini e delle donne raccontate entro i paletti di un testo fatto e finito, esaurito nel tempo stesso della lettura, ma le sostanziano e le rafforzano, ampliandone i confini e gli orizzonti, la Brum tenta di ringalluzzire l’occhio pigro e addomesticato di chi pensa e osserva con occhi velati da certezze pregresse e prestabilite. Riesce così a restituire verità, spessore e sfumature all’insurrezione placida ma infaticabile di chi vive per sopravvivere, sempre sull’orlo del baratro, salvando dall’oblio e dall’ignoranza dei più la singolarità e la creatività di qualunque forma di resistenza venga messa in atto «per dare senso a quello che non ne ha».
Dopo aver affilato per anni le sue capacità narrative come reporter freelance e aver girato in lungo e in largo l’Amazzonia con l’orecchio teso in ascolto, la Brum ha acquisito una voce tersa, equilibrata ed asciutta quanto basta, che sa essere impietosa e cruda quando è necessario, sviluppando una notevole vocazione visiva per il dettaglio minimo ma svelatore e l’inquadratura cinematografica, specialmente nella descrizione dei volti e dei gesti. I pezzi più o meno brevi che compongono il libro rivelano l’empatia linguistica e riflessiva propria di chi possiede abbastanza spazio interiore per abbracciare sé e gli altri, il racconto e il raccontato, senza però appropriarsente arbitrariamente, onorando la dovuta e legittima distanza d’osservazione.
In un tourbillon di mitologie, soprusi, leggende, omicidi, sante e riparatrici invocazioni, la letteratura germina dalla vita reale e permette di superare l’estraneità della lontananza e dell’indiffereza, garantendo l’acquisizione di una nuova consapevolezza, di una prospettiva più sincera e meno artificiosa.
Dorica, Jovelita e le altre levatrici, che ignorano le lettere dell’alfabeto ma leggono i segnali della natura, e poi Vanderlei il matto che galoppa su un manico di scopa e poi ancora l’operaio T. che non respira quasi più a causa dell’amianto e Dona Eugênia la cartomante e Zè Demonio il boss dell’oro nell’Eldorado dello Juma e Adail il facchino dell’aeroporto che non ha mai volato e sogna a occhi aperti e Jorge Luiz il mangiatore di vetro abbandonato dal suo pubblico e Oskar Kulemkamp il collezionista di cianfrusaglie e Selvina la madre di dodici figli di cui nove morti e uno scomparso, custode, come migliaia di altre donne, di una generazione perduta.
Dalla collisione di personaggi strambi e poetici, resilienti e combattivi, savi e sognatori, delusi e disperati, tutti coinvolti in una lotta impari contro i soprusi e lo sfruttamento di un mondo iniquo e cinico, vien fuori un mosaico eterogeneo e vivido, malinconico e potente, in cui ogni tessera vivifica e irradia quella a sé adiacente, una cronaca obliqua, a tratti straziante, che scava al fondo senza però appesantire o anestetizzare la lingua.
Piccoli squarci di esistenza che sfuggono al giogo vessatorio della dimenticanza, i reportage narrativi de Le vite che nessuno vede dipingono un affresco di storie laceranti e cruente, piene di ferite impossibili da rimarginare, che appaiono troppo assurde, tragiche e ingiuste per essere vere. Eppure sono vere, tangibili e più vicine a noi di quanto potremmo immaginare.
Niccolò Amelii
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