A trent’anni dalla prima edizione Einaudi, torna in libreria Obabakoak di Bernando Atxaga (21lettere editore), nella traduzione di Sonia Piloto Di Castri. Bernando Atxaga è il più grande autore vivente in lingua basca, la lingua euskara, una lingua che negli ultimi quattro secoli ha prodotto poche decine di opere e che anche nelle mani dei propri scrittori appare «strana».
Proprio nelle prime pagine dell’opera, infatti, Atxaga dichiara:
Scrivo in una lingua strana. Le sue forme verbali,
la struttura delle sue proposizioni relative,
le voci con le quali designa le cose antiche
– i fiumi, le piante, gli uccelli -,
non hanno sorelle in nessun luogo della terra.
Casa si dice etxe; ape, erle; morte, heriots;
Il sole d’inverno, eguzki o eki;
Il sole di primavera o di estate,
anch’esso – com’è ovvio – eguzki o eki.
(È una lingua strana, ma non tanto).
Una lingua strana ma non stramba. «Come è ovvio» ha le sue regole e una logicità come ogni altra lingua al mondo, ma ha anche una grande particolarità: è parlata da pochi, appartiene a una piccola nazione (e questa è anche una dichiarazione ideologica), però conta un’esigua tradizione letteraria e chi ne fa uso prova quindi, innanzitutto, a ricostruire le proprie radici. A rintracciare le proprie regole: proprio come accade nelle pagine di Obabakoak.
Letteralmente “Obabakoak” significa ‘cose di Obaba’ ‘quelli di Obaba’, e tutto sommato le storie contenute in questo libro arrivano proprio da lì, da Obaba, ne sono – appunto – le cose che lo abitano. Sono storie che manifestano sul modo d’esprimersi di un popolo ma allo stesso tempo raccontate riflettendo sull’atto stesso di narrare.
L’operazione è metaletteraria. Da un lato Atxaga si propone di farsi interprete vivo di una cultura minore (per quel che possa valere questo termine in questo contesto), dall’altro apre una questione creativa spinosa: come opera la lingua euskara? Secondo quali criteri si riescono a far emergere e conservare le proprie caratteristiche retoriche ed espressive? E, soprattutto, secondo quali logiche si arriva a definire una tradizione letteraria?
Questi quesiti che muovono l’opera danno vita a un quadro eterogeneo e complesso. I racconti di Obaba, tra loro disparati (nel tentativo di rappresentare la varietà umana a cui si riferiscono), finiscono col rappresentare tanti piccoli tasselli di quel mosaico che, al contempo, è specchio di un mondo e suo strumento d’analisi.
Ho sentito che il Gioco dell’Oca rappresenta, come i racconti tradizionali, un determinato modo di intendere la vita; che è la descrizione delle opere e dei giorni, e di tutto quello che dobbiamo superare in questo mondo; che è insomma una descrizione e una metafora.
Roberto Atxaga costruisce per Obaba un universo magico: si va dal ragazzo che torna a tormentare, nelle vesti di cinghiale, il villaggio in cui era vissuto, alla geografa alle prese con le lettere d’amore che il padre riceveva da una sconosciuta; personaggi che tornano a Obaba dopo lunghe assenze e storie in cui si confondono i concetti di pena e redenzione. Tra queste una serie di storie sulla permanenza di Martin sull’isola di Villamediana. Un universo tracciato attraverso sottili connessioni e dispiegato attraverso le sottili armi della penna di chi scrive: cioè l’intero armamentario retorico e stilistico utile a catturare il lettore e a renderlo parte della storia.
Obabakoak ha il sapore delle grandi narrazioni popolari: la voce di Atxaga si confonde tra quella dei suoi personaggi fittizi e diventa voce comune, di tutti, rappresentazione di un popolo e, quindi, della sua lingua.
Antonio Esposito
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