Valerio Bispuri e i suoi racconti fotografici: intervista al fotoreporter italiano
Siamo nel 2001 e c’è la crisi economica in Argentina: Valerio Bispuri parte per fotografare i manifestanti a Buenos Aires, stanchi dei danni provocati al paese. Per dieci anni soggiorna nel continente ed è lì che inizia il suo progetto Encerrados, che scava nel quotidiano dei detenuti, restituendoci il riflesso delle loro emozioni e di quella che Valerio definisce la libertà perduta. L’esperienza verrà replicata in Italia, con il titolo di Prigionieri: dal carcere più piccolo alle case circondariali, le foto mantengono lo stesso sguardo delicato, che rifiuta di denunciare le condizioni dei detenuti, ma adotta un approccio antropologico che relaziona l’individuo all’ambiente e al proprio vissuto.
Fra tutti i suoi progetti, da quello sul popolo rom alle cucine del paco, in quest’intervista ci concentriamo sul suo modo di approcciarsi al soggetto e di aprirsi alla conoscenza dell’altro, prendendo spunto dagli scatti e dalla sua visione del mondo.
Ciao, Valerio. È da tempo che seguo i tuoi lavori e mi sono appassionata ai tuoi racconti. Da dove nasce l’idea di entrare nei penitenziari e di raccontare il quotidiano dei detenuti?
Encerrados è nato per un caso: durante una cena in Ecuador, paese nel quale mi ero recato per un altro progetto, alcuni scrittori raccontavano del nuovo sistema penitenziario. Mi invitarono a visitare le carceri e l’esperienza fu traumatica: non ero preparato, mi sentii inesperto e inconsapevole. Tornato in Argentina, decisi di ripetere l’esperienza e da lì nacque l’idea di ritrarre il quotidiano dei detenuti, nei loro gesti e nella percezione del tempo.
Mi piacerebbe che raccontassi del tuo approccio alla fotografia. Come si costruisce la fiducia con il soggetto fotografato?
Nel mio lavoro cerco costantemente di bilanciare le emozioni con la realtà: se mi concentro troppo sulle prime, rischio di tralasciare la fotografia, e di curare meno il rapporto umano, mentre – attaccandomi troppo al reale – vado incontro ad una freddezza controproducente, che punta solo all’estetica. Più o meno tutti sono capaci di scattare una foto: il difficile è produrne una che non rimanga in superficie, che scavi in profondità. È per questo che i progetti mi impegnano per molti anni, durante i quali approfondisco i rapporti e costruisco una fiducia reciproca: l’altro deve in qualche modo svelarsi, aprirsi e raccontare. Inizialmente è fondamentale capire gli stati d’animo, fare un vero e proprio lavoro antropologico, che si interessi profondamente al soggetto fotografato: il racconto che ne esce è autentico, perché la persona ha saputo predisporsi allo scatto e si è aperta realmente. È anche vero che ci sono due modi diversi di affrontare il fotoreportage: nel caso più comune, il fotografo si reca sul posto e scatta per divulgare informazioni e imprimere l’accaduto (penso all’esplosione di una bomba, ad esempio); io, invece, cerco di fotografare ciò che non viene rivelato, che si nasconde agli occhi degli altri. Mi piace, infine, tramandare i vari punti e i vari discorsi di quello che è il mio modo di fotografare, attraverso gli scambi e il mestiere di insegnante, nei corsi di fotografia che tengo ogni anno.
Cosa ti ha colpito di più della vita dei detenuti? Quali aspetti hai voluto che emergessero maggiormente?
I penitenziari sono spesso descritti da un punto di vista crudo e violento. Nel mio lavoro, invece, preferisco far emergere gli aspetti più umani del detenuto, i rapporti che instaura all’interno del carcere, la solidarietà che nasce con gli altri e ciò che veramente è importante per lui. Mi interessa la spinta che i detenuti hanno nel reinventarsi e nel costruire un nuovo quotidiano. Nello specifico, ricordo di un detenuto al quale chiesi di svolgere un’attività: mi rispose che non aveva tempo e la cosa mi colpì molto. Più tardi capii che gli orari del carcere sono ciclici e ripetitivi, le giornate si somigliano tutte. Al principio sembra che il tempo non passi mai, poi – all’improvviso − diventa rapidissimo. Questo è l’interrogativo al quale cercano di rispondere le mie fotografie: come diventa l’uomo quando non ha più la possibilità di muoversi all’esterno e di condurre la vita di sempre? Quanto e come viene modificata la sua identità dalla libertà perduta?
Dopo l’esperienza di Encerrados, da dove è nata l’idea di entrare nelle carceri italiane? Quali sono le differenze che hai riscontrato tra i due sistemi penitenziari?
Una volta rientrato dal Sudamerica, ho presentato il libro nelle carceri italiane: a Poggioreale si è avvicinato un detenuto e mi ha chiesto: “Valerio, perché non fotografi anche noi?”. È stata questa domanda a farmi scattare la scintilla: dopo aver parlato con il direttore, ho avviato in quel carcere i miei primi lavori fotografici. Col passare del tempo, ho esteso il progetto agli altri penitenziari: inizialmente volevo raccontare solo le quattro carceri più affollate di Italia ma, visto il crescente interesse, ho deciso di visitarne altre. Ho ritratto le sezioni femminili, le piccole carceri lombarde e persino le strutture più recenti, attraversando tutta la penisola. Da un confronto tra i due sistemi penitenziari, sono emerse delle differenze nella gestione del quotidiano: nonostante la violenza delle carceri sudamericane, i detenuti vivono in maniera solidale, stringendo legami che li aiutano a sopravvivere; in Italia, invece, si tende all’isolamento, che spesso provoca una maggiore esasperazione.
Parallelamente al lavoro di fotoreporter, ti occupi dell’insegnamento. Ci racconti com’è nata la tua scuola di fotografia?
All’inizio venivo ospitato nelle sedi fotografiche, ma ora ho una mia scuola e diversi allievi. Mi muovo tra Roma, Milano e Palermo. Creo dei veri e propri percorsi che durano circa due anni: mi occupo dell’ editing e di come si costruisce una storia, per arrivare ad un vero e proprio racconto fotografico. L’insegnamento è una passione, uno spazio in cui tramandare gli aspetti più importanti del mio lavoro e della mia idea di fotoreportage. Come ho già detto, per me sono fondamentali i concetti di profondità e di narrazione: l’estetica passa sempre in secondo piano. Mi muove la volontà di raccontare, di lasciare qualcosa agli altri.
Rebecca Cicchetti