Il conflitto che c’è in noi. Guerre interne di Joseph Zarate
Ha ricevuto il Premio Ortega y Gasset nel 2016 e il Premio Gabriel García Márquez de Periodismo nel 2018. Joseph Zárate, nato a Lima, ma le cui radici si perdono a Pucallpa, in questi giorni è in libreria con Guerre interne, uscito per Gran Vìa editore, tradotto da Francesco Fava, segnalato dal «New York Times» tra i dieci migliori testi di non fiction in lingua spagnola del 2018.
Tre materiali, legno, oro e petrolio, per raccontare le guerre interne di un paese, il Perù. Questo il corpus del libro-inchiesta di Joseph Zárate, questo il confine che segna le storie raccolte dal giornalista peruviano. “Guerre” perchè sono veri e propri conflitti per difendere la propria terra, creati da chi vuole sottrarla ai legittimi proprietari; “interne” perchè sono tre materiali ricavati dalla terra; “guerre interne” perchè il conflitto che abita la terra, nasce prima ancora nell’animo delle persone: «corrisponde anche a uno spazio mentale ed emotivo nel quale entrano in gioco necessità e desideri umani come la protezione, il potere, l’ostentazione, il superamento dei nostri limiti. Ho scelto il legno, l’oro e il petrolio come simboli del progresso, di quel benessere che tutti inseguiamo. Il dilemma su cui discutere è che cosa siamo disposti a sacrificare in quanto individui, in quanto società, per ottenerlo».
La foresta abitata
Tolstoj ha scritto che gli uomini, quando guardano il bosco, vedono solo legna, cita Zárate, ma la storia di Edwin Chota, che si interseca con il traffico di legname, va ben oltre a ciò che potremmo immaginare. «Per Edwin, la protezione dei boschi era una battaglia spirituale». Chota, uomo di città, sente forte la causa degli indigeni che stanno perdendo la propria casa a causa della deforestazione, spesso illegale. Un uomo dal «sorriso largo, esagerato, contagioso, con un vistoso spazio vuoto dovuto alla mancanza di uno dei denti davanti», disposto ad abbandonare tutto, tornare a vivere nel bosco e morire per questo, «due mesi dopo, la mattina del primo settembre 2014, alcuni uomini legati all’industria del legname assassinarono Edwin Chota insieme ad altri tre dirigenti ashàninka – Jorge Rìos, Francisco Pinedo e Leoncio Quintisima – nella foresta di Alto Tamaya, mentre si recavano a un’assemblea sul lato brasiliano della frontiera per coordinare una difesa dei loro territori. Un proiettile di fucile calibro sedici, di norma usato per cacciare cervi e opossum, gli attraversò il petto. Un altro gli perforò il cranio».
Dove si oltrepassa il confine?
I dodici anni passati nella foresta hanno consentito a Chota di mappare il territorio, tracciare i confini, «si preoccupò che Saweto possedesse uno strumento semplicissimo: una carta geografica. Per fronteggiare aziende o governi abituati a negare o a minimizzare il saccheggio, Chota credeva che gli ashàninka dovessero utilizzare il linguaggio della cartografia – coordinate, linee di demarcazione, fotografie aeree – come un’arma per difendere ciò che consideravano loro». Tuttavia questo non ha impedito che la sua vita finisse quel tragico primo settembre del 2014. «Chi difenderà il nostro bosco?», si chiedeva Chota, la sua perseveranza nel reclamare la proprietà dei terreni aveva di fatto alterato lo status quo su cui si reggeva la dinamica dei territori, «le compagnie del legname non avrebbero più potuto fare quel che volevano indiscriminatamente. […] Ecco perché lo volevano morto».
Una panchina d’oro
«Qualcuno ha detto che il Perù è un mendicante seduto su una panchina d’oro. Se con questa frase si è voluto alludere a una miseria volontaria e a una ricchezza immensa a portata di mano, si è caduti in errore», così scriveva Jorge Basadre, in Meditaciones sobre el destino històrico del Perù, una delle citazioni che aprono i tre capitoli di cui è composto Guerre interne ed equivale alla promessa che spesso la politica ha fatto ai peruviani: grazie a questa panchina, presto sarebbero passati al Primo Mondo. I tre materiali intrecciano le storie di Edwin Chota: «perché un elettricista decide di abbandonare la moglie, i figli e le comodità cittadine per andarsene nel cuore della foresta, trasformarsi in un leader indigeno e lottare fino alla morte contro i trafficanti di legno?»; di Máxima Acuña Atalaya: «perché una donna decide di mettere a rischio la propria vita e quella dei suoi figli e resistere per anni a una compagnia mineraria che vuole cacciarla dal suo terreno?»; e di Osman Cuñachí: «perché un bambino decide di immergersi in un fiume invaso dal petrolio, un disastro che per il suo villaggio, anziché una calamità, diventa all’improvviso un’inconsueta forma di progresso?». I tre materiali sono stati scelti perchè «non sono solo materiali: sono metafore che parlano di conflitti umani provocati dalla collisione tra diverse visioni dello sviluppo»; a proposito del petrolio, che ha inquinato il fiume Chiriaco, Zárate scrive «la fuoriuscita […] avrebbe colpito non soltanto la salute, ma anche i pensieri delle persone. Soprattutto a partire da quando, oltre a propagare la paura, il disastro ha offerto la possibilità di guadagnare dei soldi»: il recupero del greggio ha un valore economico che viene corrisposto a chi accetta il lavoro.
Dare voce alle proprie radici
Quando Zárate raccoglie la documentazione per scrivere questo libro, frutto di anni di collaborazioni con la rivista Etiqueta verde, fa un viaggio con sua nonna, Mamita Lilì, perchè si rende conto che «c’era qualcosa che andava oltre la denuncia giornalistica, un filo nascosto, qualcosa di più complesso rispetto al solo tema ambientale. Con il tempo, i viaggi e le letture, ho capito che scrivendo sui conflitti per la terra, su chi abita e difende le montagne e le foreste, non stavo soltanto “dando una voce” a quelle persone. La stavo dando a me. Avevo raccontato, senza essermelo proposto, il luogo da dove veniva la mia famiglia». Ciò che ci racconta in Guerre interne è prima di tutto un viaggio che l’autore fa dentro se stesso, per ritrovare ancora una volta quelle radici che con il tempo aveva forse dimenticato. Il viaggio che fa con sua nonna è quello sguardo intimo con il quale riesce a entrare in contatto con quella foresta e con quelle donne e quegli uomini che con forza portano avanti le loro battaglie silenziose. È dare voce, agli altri sì, ma soprattutto a se stesso. Quella carta geografica che Edwin Chota aveva disegnato per delimitare i confini, in Zárate diventa un campo immenso in cui coltivare il proprio animo, in cui dialogare con quello spazio interiore, «hanno deciso di restare e condurre una specie di guerra – dentro e fuori sè stessi – affinchè la loro cultura e la vita che conoscono non vengano schiacciate dal potere di un’impresa, di una mafia o di un governo che li tratta come se non fossero cittadini».
Raccontare, oltre ogni cosa
Dopo aver terminato la lettura di Guerre interne, mi sono chiesta che cosa significhi oggi oltrepassare i confini? La scrittura di Joseph Zárate è pulita, essenziale, le parole ponderate, dirette, c’è il contraddittorio, racconta i fatti senza giudicare, sono i fatti a dirci come stanno le cose. Che il suo sia giornalismo letterario, d’inchiesta, un reportage, poco importa, ciò che porta avanti è uno sguardo personalissimo, allenato a soffermarsi sui dettagli, ad andare oltre alle impressioni, a fare luce su ciò che, per molti, sarebbe meglio tacere. Abitare la scomodità per raccontare ciò gli accade intorno. I confini sono strumenti di potere. Saperli oltrepassare è una questione di coscienza.
Paola Zoppi