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I messaggi performativi di Grot. “Timidi messaggi per ragazze cifrate” di Ferruccio Mazzanti

Nel 1970 Ferenc Karinthy, scrittore e linguista ungherese, diede alle stampe Epepe, romanzo, poi diventato di culto, in cui si racconta la bizzarra avventura – tutta linguistica – del professor Budai che, sceso all’aeroporto sbagliato, si ritrova in una grossa e affollata metropoli i cui abitanti parlano una lingua incomprensibile e insondabile, al punto da costringerlo a vivere ai margini della società. Epepe è un romanzo sull’incomunicabilità, sui paradossi a cui possono essere sottoposti i meccanismi della lingua e dell’interazione interpersonale e, soprattutto, per buona parte della critica, un romanzo kafkiano poiché – da definizione – inquieto, angoscioso, desolante, allucinante, assurdo. In un altro romanzo, di più recente pubblicazione, c’è un giovane ragazzo, il suo nome è Grot, che gira per la città in cui è cresciuto con un girasole in mano alla ricerca della ragazza di cui si è innamorato utilizzando un linguaggio tutto suo, cioè non proprio suo, un linguaggio che ha una sua storia, dei codici ben precisi e che risulta praticabile per chiunque ne abbia le chiavi d’accesso, ma che in questo particolare contesto finzionale forza i meccanismi di incomunicabilità e altera le funzioni narrative dei singoli personaggi. Questo romanzo è Timidi messaggi per ragazze cifrate (Wojtek) di Ferruccio Mazzanti.

Timidi messaggi per ragazze cifrate

Il Grot di Ferruccio Mazzanti è un eroe della timidezza, un giovane autorecluso, un hikikomori, capace di dialogare col mondo esterno solo attraverso l’utilizzo di messaggi crittografati che dissemina in casa per la madre o nel web indirizzandoli a ragazze sconosciute il cui equilibrio viene totalmente scombussolato dall’improvvisa necessità di uscire di casa – 1.255 giorni dopo la reclusione – per una ragazza che ha dimostrato di saper comprendere il suo linguaggio. Il romanzo di Mazzanti alterna al racconto della solitudine imposta del ragazzo una vera e propria storia delle scritture segrete; o almeno dei passaggi fondamentali che hanno permesso nel tempo il complicarsi/perfezionarsi della scrittura crittografica. E il risultato è, sì, una straniante opera sulla solitudine, la diversità, il dolore e l’impossibilità di trovare una propria dimensione all’interno della società contemporanea, ma è anche – e forse è più di tutto – un romanzo che sovverte i paradigmi linguistici, che ribalta – tornando all’Epepe chiamato in causa in apertura – quel meccanismo per cui l’integrazione possa essere data innanzitutto dalla semplice condivisione del meccanismo linguistico. Perché se è vero, come certa filosofia del linguaggio ci insegna, che uno dei principali poteri della parola sta nell’esigere una risposta, è altrettanto vero che Grot individua la propria crisi (quella che innesca il procedimento narrativo – ciò che l’aveva spinto all’autoreclusione è precedente alle pagine del libro) proprio nella condivisione, nella possibilità che altri da lui possano comprendere quanto espresso.

Così iniziai a studiare, chiuso in camera mia, quasi in lacrime, le tecniche necessarie per comunicare col mondo là fuori. Mi sentivo sotto assedio. Sapevo che la mia principessa azzurra sarebbe venuta a salvarmi una volta che mi avesse messo in chiaro, ma dovevo fare in modo che sapesse dove fossi […].

A differenza del professor Budai di Karinthy – emarginato perché condannato all’incomunicabilità – Grot si muove in maniera cosciente. Rintraccia un percorso da seguire: si emargina perché si «sent[e] sotto assedio» e non riconosce più i principi della società in cui si muove. Ma da quella società non prende totalmente le distanze, anzi, la sua prima azione è studiare per individuare nuove regole del linguaggio. Il suo primo gesto è cercare di comprendere come comporre una nuova domanda da rivolgere a una possibile «principessa azzurra».

Fare cose con le parole

La formulazione della domanda è, d’altronde, una richiesta di felicità. Grot invia messaggi cifrati alle ragazze per dare un nuovo equilibrio al proprio mondo, un meccanismo che superi le deformazioni di cui si vede affetto – fisiche e mentali – e che possa permettere di stabilire rapporti all’altezza della propria personalità, delle proprie forze emotive. La lingua diventa per il giovane hikikomori un meccanismo performativo e le parole, così come suggeriva il titolo di un saggio di John Langshaw Austin, assumono la capacità di fare cose. Per la precisione Austin parlava di condizione di felicità dei performativi, affermando che le parole potessero divenire azione solo se pronunciate nelle circostanze appropriate e cioè: deve esistere una procedura convenzionalmente accettata capace di far scaturire un determinato effetto convenzionale; la procedura deve includere l’atto di pronunciare certe parole da parte di certe persone e in certe circostanze; le certe persone e le certe circostanze in un dato caso devono essere adatte alla precisa procedura cui si fa riferimento; la procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti sia correttamente che completamente; nel caso in cui la procedura fosse destinata all’impiego da parte di persone aventi certi pensieri e sentimenti, quelle persone saranno costrette ad avere quei pensieri e quei sentimenti; i partecipanti devono avere intenzione di comportarsi in tal modo e, infine, viverne le conseguenze.

La felicità performativa

In Timidi messaggi per ragazze cifrate assistiamo al controllo ossessivo sulle giornate da parte di Grot, la formazione e conservazione di una routine, i monologhi della madre attraverso una porta chiusa, le maniacali pulizie domestiche del ragazzo, i messaggi in codice passati sotto le porte, i silenzi, certe forme di solitudine che si incastrano senza trovare la forza di interagire e la lingua, soprattutto la lingua, che di giorno in giorno si disarticola e torna incessantemente su se stessa nel tentativo di trovare nuovi codici di comunicazione. Il tentativo, per Grot, l’eroe della timidezza, di dare un nome a una possibile felicità performativa e condivisa.  

Antonio Esposito

Antonio Esposito

Antonio Esposito nasce a Napoli nel 1989. È laureato in Lettere e specializzato in Filologia moderna. Attualmente scrive racconti, pianifica romanzi e insegue progetti editoriali di vario genere. Da editor collabora con la casa editrice Alessandro Polidoro, dove dirige anche la collana dei Classici.

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