In balìa di Dioniso: tragedia e psicoanalisi nel romanzo di Arsì
La donna è materia e luce. Questo ci racconta Lucia Arsì nel suo romanzo breve In balìa di Dioniso, una vertiginosa sequenza di immagini e riflessioni, dove l’azione si frammenta e in ciascun frammento si dilata una meditazione che trapassa le comuni circostanze enunciazionali dell’hic et nunc per proiettarsi nella filosofia, nel mito, nella saggezza classica e nella psicoanalisi junghiana.
Di Jung l’autrice riprende con perentorietà i concetti di anima e animus, il femminile nel maschile e il maschile nel femminile, mostrando tutti i limiti dello sforzo umano nella ricerca di equilibrio tra passioni e razionalità. Il controllo delle pulsioni è faticoso: ciò che conosce la mente non è quello che suggerisce il corpo. Il corpo,dal canto suo, non sempre sceglie quello che la razionalità e lo spirito apollineo avrebbero da suggerire. Se da un lato c’è Stefano, amato perché rappresenta il giusto amante (sul senso della giustezza si apriranno presto però alcune riserve), dall’altro c’è Massimo, pronto a irretire e conquistare il corpo della donna del suo amico Stefano. La donna contesa tra i due rivali – o forse anche complici? – è la voce narrante, la protagonista, una donna indagatrice del sé e del proprio animo, una donna in continua evoluzione, preda di un cambiamento inesorabile come il divenire di Eraclito, incapace, forse, di trovarsi uguale guardandosi due volte allo stesso specchio. Ma è anche una donna che può contare su alcuni cardini fissi e immutabili, quali sembrano la sua autostima, la passionalità, la capacità di lasciare che il sogno interiore si intrecci con la realtà quotidiana, spesso prevalendo su di essa.
Il tempo tra Chronos e Aion
A proposito di intrecciare sogno e realtà, ecco che torna con prepotenza la definizione di donna come materia e luce, come corpo e spirito, come carnalità ed entità idealizzata. Proprio la luce, in questa esplorazione intimistica che lascia dilatarsi a dismisura tra gli interstizi dell’azione narrativa, rima inequivocabilmente con la “filosofia del tempo”, un tempo concepito sia come Chronos “signore della luce”, sia come dimensione aionica di junghiana memoria (non può essere casuale, nel romanzo, il riferimento al titolo di un famoso saggio di Jung) che rimanda all’eternità, all’infinito di Io, Anima, Animus e Ombra.
Maternità tra luce ed ebbrezza
La dimensione del tempo come luce e come eternità di cui si scriveva poc’anzi ha un probabile collegamento con l’idea di maternità sacra, simile a quella che troviamo in certi culti misterici legati per esempio a Kore, nei quali la luce rappresenta il ritorno alla superficie in primavera, simbolo di (pro)creazione e fertilità.
Nella relazione sentimentale e passionale vissuta dall’io narrante si innesta un filone drammatico che si ricollega al tema dell’infanticidio, citando Agave e Penteo. Quest’ultima concezione di maternità è, in opposizione alla prima, ben radicata nello spirito dionisiaco dell’umanità (Agave uccide il figlio Penteo proprio perché rapita sensualmente da un rito in onore al dio Dioniso).
Il lavoro di accostamento tra luminosità materna ed ebbrezza materna da parte di Lucia Arsì è molto fine e arguto. Entrambe le maternità hanno in comune una testa di leone. Abbiamo visto come la maternità della luce sia innanzitutto legata al concetto di tempo, rappresentato mitologicamente dalla figura leontocefala di Chronos avvolto da un serpente (questo a sua volta congiunto con Ananke, che è anche citata nel romanzo), oppure dalla più antica divinità iranica conosciuta come Zurvan, da cui Chronos sembra derivare, anch’essa rappresentata con la testa leonina.
A queste raffigurazioni leontocefale si contrappone la maternità/fertilità torbida e oscura di Agave, devota a Dioniso nonostante questi fosse inviso a suo figlio Penteo. Dioniso, per vendicarsi, fa apparire Penteo agli occhi della madre Agave sotto le sembianze di un cucciolo di leone, e scambiato per un leone viene ucciso dalla stessa madre ancora invasata.
Il mito e la classicità
Pare che la brevità del romanzo non abbia compromesso la ricchezza dei contenuti, perché l’autrice è riuscita a inserire innumerevoli elementi tipici della cultura classica greca. Non solo il titolo, non solo la citazione di svariati miti, ma anche i temi affrontati e i costumi descritti sono fortemente caratterizzati da una classicità dirompente tipica della tragedia antica. A parte gli esempi appena riportati, nel romanzo troviamo anche il “desiderio del nostos come viaggio all’indietro”, la presenza di un daimon di socratica memoria che guida le azioni umane, il dolore per la perdita di un’amica che ha tutti i contorni della tragedia delle Torri Gemelle nel nostro mondo contemporaneo, la violenza e la religiosità di un’orgia condotta da Priapo in persona e, per concludere questa ricca lista, persino l’incesto.
Proprio l’incesto è la violazione più difficile da comprendere, quella che incrina la percezione morale di uno dei personaggi. Anche in questo caso, l’autrice sembra concatenare con sapienza una serie di temi attraverso la citazione mitologica. Basta infatti una citazione di sfuggita a Sisifo perché venga in mente la congiunzione carnale con la consanguinea Tiro, figlia di suo fratello, che in seguito ucciderà i propri figli (ecco che ricorre di nuovo l’infanticidio).
Come spiegare, dunque, la violenza e il male che emerge dal cuore dell’uomo e si riflette nelle sue azioni?
Ebbene, in soccorso alla saggezza della grecità antica se ne affianca una più moderna e rivoluzionaria, ovvero quella del cristianesimo, che si occupa di risolvere l’apparente conflitto tra buio, violenza ed errore da una parte, e libertà dell’individuo dall’altra.
Scrive Lucia Arsì: “In verità la Libertà è possibilità, concessa da Nostro Padre, ad essere così ed anche così: luce e buio. Noi possiamo il buio: rapporti incestuosi, liberi di concederci a tutti, masticare il sangue di tutti, vilipendere tutti, falcidiare il cuore di tutti, possiamo inebriarci della disperazione altrui.”
Se non giustificato, il male è quindi pienamente compreso. La ragione, da sola, non serve a spiegare ogni cosa. Amabile, a tal proposito, è il paradosso ben costruito dall’autrice: “Io non ho fede assoluta nella ragione; do ragione alla fede che con umiltà accetta i limiti e la debolezza della ragione e la solletica svegliandola.”
E allora, come risvegliatasi da un brutto sogno, nel quale le tenebre hanno rischiato spesso di annientare la luce, i “lampi luccicanti [che si insinuano] tra gli spazi della serranda […] e si adagiano accanto al […] letto” lasciano presagire quale via alla fine abbia intrapreso la protagonista una volta messa di fronte alla scelta ineluttabile dell’esistenza fatta di bene e di male, di luce e di oscurità.
Giuseppe Raudino