L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini
Philip Ó Ceallaigh in un suo racconto sostiene: «Se ti vuoi fare un’idea di come se la passa una città devi andare a vedere i suoi margini». Solitamente il centro funziona mentre le storture, i malfunzionamenti, i limiti, i disagi, sono espressi dalla periferia; soprattutto quando le periferie hanno come polo di riferimento una grande città capace di prosciugarne per intero le energie che la circondano. Ma non tutte le periferie sono uguali, alcune si sviluppano per naturali processi di conurbazione, altre riescono a definire la propria identità, diventare motivo d’attrazione, celebrare i propri fasti e poi, drammaticamente, finire col celebrare il fantasma di quei fasti. Una simile sorte è toccata alla Torvaianica raccontata da Roberto Venturini nel suo L’anno che a Roma fu due volte Natale (SEM).
Il villaggio Tognazzi
Negli anni sessanta, in pieno boom economico, Torvaianica divenne meta estiva per buona parte del jet set culturale italiano e internazionale grazie alla presenza sempre più radicata della famiglia Tognazzi. Entro tre strade private, che presero poi il nome – appunto – di Villaggio Tognazzi, si riunivano ogni anno stelle del cinema e del teatro: in quelle vie era possibile incontrare Gassman, Petri, Mastorianni, Pasolini, Pavarotti o i coniugi Vianello. Ugo Tognazzi amava circondarsi di persone durante la bella stagione: per loro organizzò persino un torneo di tennis, lo scolapasta d’oro, e in un paio di decenni riuscì a inventare per il litorale romano, quella che Pupi Avati definì «una Hollywood sul lungomare»; e forse tutti loro contribuirono a definire il mito dell’estate italiana.
Il romanzo
Ne L’anno che a Roma fu due volte Natale il Villaggio Tognazzi appena raccontato appartiene al passato e i personaggi che abitano le pagine del romanzo di Roberto Venturini vivono ricordando quei giorni, sentendo ancora – quando i ricordi si fanno più nitidi – l’odore di quelle estati e delle opportunità che nascevano incontrando certe celebrità. In particolare, nella Torvaianica di Venturini, c’è Marco, tossicodipendente dal carattere insicuro e Alfreda, la madre, un’accumulatrice seriale la cui lucidità è segnata dai primi colpi della demenza senile. Da un po’, infatti, durante le notti insonni la donna sostiene di parlare con Sandra Mondaini – conosciuta negli anni d’oro del Villaggio – e che l’attrice le racconti le sofferenze post mortem causate dalla forzata separazione dalla salma del marito, Raimondo. Allora Marco, la cui esistenza sembra totalmente votata a soddisfare le esigenze della madre, decide di assecondare il desiderio di Alfreda: riavvicinare la coppia più celebre della televisione italiana. Aiutato da Er Donna, noto travestito del litorale, e Carlo, vecchio pescatore, Marco ordisce un piano: trafugare la salma di Raimondo dal Verano e portarla al cimitero di Lambrate, dove riposa Sandra.
Due volte Natale
A forza di farsi scivolare le cose addosso, ad Alfreda si era impermeabilizzata l’anima. Però quella notte dell’anno in cui a Roma fu due volte Natale le formicolarono le emozioni, allora infilò una mano in un guanto irrigidito dal tempo e prese un paio di ciocchi di legno, li gettò nel braciere arrugginito che teneva in veranda e accese il fuoco.
Il sogno di Alfreda, il piano di Marco, la partecipazione di Carlo e di Er Donna generano quel cortocircuito narrativo che, come suggerisce il titolo, fa sì che Natale accada due volte. E mi spiego: Venturini si muove nell’attuale Torvaianica con la grazia e la nostalgia di chi torna a calpestare le strade dove un tempo è stato felice. Ma non ottiene una storia nostalgica, anzi, i suoi personaggi stringono i denti e affrontano il presente per vivificarlo, per agganciare il passato – magari attraverso i suoi simboli, chi l’aveva incarnato, Sandra e Raimondo – e restituirselo così com’era. Per tornare a quella gioia, o forse per lenire le ferite. L’anno che a Roma fu due volte Natale fu quello in cui la capitale si ritrovò coperta dalla neve nel mese di febbraio. D’improvviso la popolazione si risvegliò felice, i sorrisi tra le persone erano cordiali e ci si salutava, anche tra sconosciuti, come se fosse un giorno di festa. Non un vero Natale, quindi, ma qualcosa che ne restituiva lo spirito.
Alla stessa maniera, fuori di metafora, Venturini utilizza i suoi personaggi, le loro storie, le gioie e le cadute, per dimostrare che, se si mette da parte la nostalgia, nei ricordi è sempre possibile trovare una traccia positiva da riportare a galla, da tornare a far vivere.
Una traccia che non è Natale, ma è come se lo fosse.
Antonio Esposito