«E tu cu minchia si?» urlò mio padre. Avevamo finito il vino e andammo a prenderlo nella nostra casa in campagna distante pochi chilometri dal paese. Lì, dentro la casupola usata da mio padre per tenere gli attrezzi e conservare il vino, trovammo lui. Era seduto su una poltrona, con le ginocchia al petto. Sulle spalle teneva un drappo viola, che ogni tanto, guardandoci, si aggiustava. Aveva i capelli lunghi e la barba. Era esile. Ci rendemmo conto che era nudo, se non per un lungo e largo mutandone bianco. Ci guardava spaesato. Quando aprimmo il cancelletto della casupola e lo vedemmo così ci prese un colpo. Se ne era rimasto rinchiuso per quaranta giorni e quaranta notti. Quando ci raccontò la storia, notai che aveva diverse ferite sulle braccia e una all’altezza del costato. L’uomo aveva sentito parlare in giro di questa malattia che colpiva le persone e che poteva essere letale. Preso dallo spavento, se ne scappò e, non si ricordava come, si ritrovò dentro la nostra casupola. «E c’a manciatu? Cà c’è sulu vinu». Ci disse che non aveva né mangiato né bevuto, perché non aveva ben capito come si contraeva la malattia, e allora, dallo spavento, se ne era rimasto immobile sulla sedia, senza muoversi, tenendo il conto dei giorni che passavano tramite la luce che filtrava dalle grate in alto. Ci chiese com’era la situazione. «Tanticchia megliu, ora ni putemu moviri. Vinissi, ci damu un passaggiu, unni abita?» Non si ricordava da dove veniva, ricordava solo il bisogno di scappare per non contrarre la malattia. In seguito a casi di forte shock, la possibilità di amnesia temporanea aumenta, dissi a mio padre. Portiamolo dal dottore. Quando si alzò, gracile, notammo che non riusciva bene a muoversi, come se fosse rigido. Ci accorgemmo anche che gran parte del corpo era cosparso di sangue secco.
Dal dottore, quando lo facemmo distendere sulla barella, notammo anche che le giunture sotto le ascelle erano come di gomma, così come le spalle. Erano di un marroncino chiaro, che si confondeva con la sua carnagione. Anche le ginocchia, malgrado il sangue, erano dello stesso tipo, come se le due parti fossero state unite con la colla. «Dottore, è finito il contagio?» Senza dargli ascolto, il dottore si rivolse a noi. «Questo va diretto al museo di antropologia di Girgenti».
Senza capire, ci ritrovammo al museo, il nostro ospite si guardava intorno come se fosse la prima volta che mettesse piede in quel luogo. «Ah, eccoti, ci mancavi», disse qualcuno all’ingresso, vestito elegantemente in giacca e cravatta. Gli occhiali che indossava sembravano emanare luce propria. Lo seguimmo in fila indiana, l’ospite era l’ultimo. Passammo sotto un grande arco, al di sotto del quale erano esposte teche di vetro contenenti rosari con perle nere e croce rossa. A un certo punto, il nostro ospite si fermò e guardò una croce appesa al muro, vuota. «Mi aiuti?» chiese, senza in realtà rivolgersi a nessuno in particolare. Si posizionò in mezzo alle due sedie poste ai lati della croce, dove ora erano comparse due persone, anch’esse in giacca e cravatta. Allargò le braccia e lo portarono su. Misero prima i chiodi alle mani. Poi, lui si sistemò le gambe, in modo da stare comodo, e i becchini misero l’ultimo chiodo. Appoggiò la testa su di un lato e chiuse gli occhi.
Giovanni Palilla
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