Una realtà in cui si intrecciano filosofia e scienza. Una realtà che è la biblioteca di Borges, l’intertestualità per eccellenza, dove ogni libro è costruito su decine di altri e rimanda a innumerevoli volumi scritti e forse ancora da scrivere.
Una realtà che è talvolta priva di contesto, circondata dalla nebbia che ci permette solo di vedere il qui e ora, e talvolta spiragli di passati collegati.
Una realtà, infine, carica di mistero, dove ci sono tante domande, ma per le risposte si dovrà cercare bene. Sono da qualche parte, nei libri. Sono sull’orlo della pagina, di taglio, nel senso che divide un racconto dal seguente.
Sono racconti, quelli di Alfredo Zucchi in La memoria dell’uguale, edito da Polidoro editore, che sanno essere al contempo interessanti (nel senso originario del termine: suscitano interesse) e sfuggenti. Perché mettono in campo soluzioni narrative particolari, trasversali, ma lasciano del tutto intangibile il contesto e il contorno. Come in Sul bordo di un evento, il racconto forse più forte della raccolta, dove in re la vicenda è perfettamente chiara, ma sfugge il perché che sottende allo svilupparsi degli eventi.
Il contrasto netto e forte fra la precisione con cui vengono narrate le storie e la totale o parziale assenza di contesto comporta una frattura nell’orizzonte d’attesa, poiché il lettore non può far altro che navigare a vista, sperando che la corrente lo porti in un luogo sicuro.
Non si gioca di pregi o difetti: è chiaro, leggendo l’intero volume, che questa è la modalità in cui Zucchi racconta. Storie come isole in oceani di significati perduti.
Se c’è qualcosa che davvero apprezzo nelle raccolte di racconti – forma narrativa che ancora prediligo – è il trovare riferimenti interni. Collegamenti fra alcuni racconti, personaggi che ritornano in vesti diverse, eventi che si danno come per accaduti in altre storie.
Nel libro di Zucchi ci sono tre racconti collegati inequivocabilmente fra di loro. I primi due hanno un indizio: gli esergo provengono dallo stesso racconto (in verità sono consequenziali) di Danilo Kiš, Lo specchio dell’ignoto. Poi viene citato un personaggio, nel secondo, che era lì anche nel primo. Era davvero lui? Forse no, forse è solo un omonimo. Ma ormai la linea è tracciata. E questi racconti parlano del Ghetto, in qualche modo. Parlano di persecuzioni – rituali, oserei dire – di accettazione, di spirito di rivalsa. E più avanti, un terzo racconto ripresenta ancora il Ghetto. Tre racconti su nove, un microlibro a sé come fossero tre momenti di un mondo che non ci è proprio, tre momenti scollegati in gran parte gli uni dagli altri (ancora una volta: la nebbia avvolge gli eventi, il contesto, in contorno).
Nove racconti, quelli di Zucchi ne La memoria dell’uguale che sanno a loro modo affascinare, e lasciano immagini precise e chiare. Che importa che intorno il mondo sia solo un cumulo di nebbia.
Maurizio Vicedomini
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