Lungo le rotaie del co-ire e del per-ire. Binari di Monica Pezzella
“Senza sovrastrutture e sipari e veli consci né fondamenta e paracadute e materassini inconsci, questa Voce ha pensato: Se ci fosse un posto in cui entrare e dire Ammazzatemi con dentro qualcuno che ti risponde Come le pare e che poi ti garantisce che al novanta percento il tutto si riduce a Dormirai… lo faccio. Lo ha pensato in pace. Razionalmente. Né più né meno che un va bene. Lo faccio mi va bene. Leva il dolore fisico, magari una fitta elettrica nel cuore la puoi prevedere, ma leva la paura folle del se dovesse durare tanto. Che può importare invece nella vita una mera questione di tempo in più tempo in meno?”.
Storia di un’ossessione, Binari di Monica Pezzella (TerraRossa edizioni) si configura a un primo sguardo come un racconto intimista sulle declinazioni del sentimento amoroso – con passaggi platonici sull’amore come agàpe e come storghé, per quanto a dare una progressione drammatica alla narrazione sia propriamente una manìa – e sui momenti dialettici di destrutturazione, caos e ristrutturazione che l’eros è in grado di imprimere a un’esistenza individuale. Ma questi, gli elementi più apertamente dichiarati, a ben vedere non fanno che assolvere a una funzione: suggerire una catena di questioni filosofiche decisive.
“E allora, adesso, questa Voce dovrebbe chiedersi cosa vuol dire avere una consapevolezza che lui non ha. Fare un po’ i conti con questa coscienza. Quando l’ha visto con Anne e Vittoria sapeva che gli è sempre, da sempre, stato indispensabile uno scarto tra lui che esisteva e lei che serviva al suo esistere. Con Ale non ne ha bisogno. Lo usa ma non deve necessariamente metterlo su un piolo più basso. Ma lo sa, questo, Marcel? E se non lo sa?”.
«Il mio tempio deve muovere gli uomini come li muove l’oggetto amato»: sono le parole dell’architetto Eupalinos che Fedro riporta a Socrate nell’elaborazione di Paul Valéry. E seguiamole, dunque, anche noi le tracce dei movimenti di Marcel, l’architetto, e soggetto amante, protagonista di un’esperienza capace di «cambiare le coordinate dello spazio e del tempo e le categorie della mente». Perennemente sospeso tra la clausura e l’amore, Marcel mostra, sin dalla prima scena con Anne, che in Pezzella il passaggio dalla chiusura (im-munitaria) dell’uno all’apertura (co-munitaria) del due passa sempre attraverso la copulazione, perché tanto la comunità quanto la copula hanno a che fare con quella radicale condivisione di sé che è in atto in ogni rapporto sessuale, per una soggettivazione che è insieme, contemporaneamente, una de-soggettivazione. Che l’essenza del sesso sia di “eccedere” sempre se stesso, spiega perché l’eccesso “ecciti”, ovvero spinga in fuori (fuori dalla dimensione solipsistica e dalla strenua difesa dei propri confini dinanzi alla minaccia dell’Altro), rivelando come Marcel si isoli solo illusoriamente da tutto il resto e che persino alla base dell’uno del narcisista vi sia in verità un due rimosso. L’amore (come del resto la violenza) è sempre relazionale: anche quando si è soli, occorre sdoppiarsi – e farsi appunto bini o “binari” – per determinare il rapporto.
Interessante, a questo punto, che l’autrice soffermi lo sguardo sulla corporeità e sulla corporalità: quelli di Marcel e di Anne, di Vittoria e di Ale, sono corpi variamente piegati, ripiegati, spiegati, moltiplicati, invaginati, esogastrulati, orifiziati, distesi, tirati, rilassati, infiammati, legati, slegati. Ed ecco che, in queste forme e altre mille, si scopre il trascendentale quale modificazione infinita e modulazione “spaziosa” del corpo che dà luogo all’esistenza. Il fisico di Marcel, nei suoi limiti cutanei, rivela come gli elementi sensibili e sensitivi del piacere e del dolore non interessino una precisa parte del corpo: nel dolore c’è coesione, il dolore non è localizzato così come illocalizzabile è il principio di piacere. L’esperienza del fuori ha dunque un ripiego – «l’interiorità è una piega del fuori» diceva Deleuze – nel didentro; un dentro che Marcel ignorava grazie alla sua abulica e moraviana indifferenza finché questo dentro non si è fatto sentire come qualcosa che non poteva più esser messo a distanza a piacimento. Una prossimità terribile e pericolosa, ancorché ingiusta in quanto non giustificata come retribuzione d’una qualche colpa. Pezzella, nelle pagine sulla relazione omoerotica tra Marcel e Ale, è piuttosto esplicita nel tratteggiare questa mise en abîme della referenzialità, in cui il segreto dell’identità dell’Io resta invisibile a qualsiasi sguardo pur rimanendo pienamente visibile nel suo carattere esemplare.
“Erano passati oltre.
Non ci sarà più lui. La prospettiva di non essere più lui, da qui alla fine del tempo, ha mortificato il tempo. Ci si dimentica di tutti e cinque i sensi. E in più l’orgasmo. E l’abulia. La voglia bestiale e il fastidio bestiale di essere toccati. Li si lascia passare”
E dunque: l’esperienza di Marcel narrata in questo breve testo “informale” è propriamente un ex-per-iri, un andare da e attraverso. Se la sua emozione è letteralmente tale, e dunque e-muove, allora modalizza una mozione che è al tempo stesso un attraversamento; e se nel co-ire gli è dato rintracciare l’originario e binario punto di partenza del tragitto, è nel per-ire che, invece, l’accento cade sulla prova che l’oggetto amato invita a superare, la prova per cui il soggetto è invitato a “passare attraverso”. In questo senso, quello che viene suggerito all’orecchio del lettore suona come un ordine metaforico legato alla traversata della vita, laddove il perire giunge al suo estremo significato di “trovare la morte”. Se il discorso di Dareh sull’amore genera imbarazzo tra gli architetti riuniti all’ascolto, è da questo incaglio che si crea una falla e una stortura, ma anche una breccia, nell’architettura mentale e sentimentale di Marcel. Dalla pratica coitale e dall’elaborazione post-coitale del protagonista prende forma un particolare tipo di conoscenza sperimentale legata alla mobilità e al transito, cosicché, in fondo a questo cammino, l’invisibile tappa terminale ricorda al viandante la propria finitudine, la propria transitorietà, la propria mortalità.
In questa sartriana impossibilità di contatto tra Marcel e Ale, e nel gioco dei reciproci oltrepassamenti, vengono in mente i versi che Pier Paolo Pasolini dedicò A un ragazzo:
“Ciò che potevamo risponderti è perduto.
Può parlarti – se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo – soltanto
chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto…”
Andrea Corona