Racconto: Dove se ne vanno a morire i gatti – Lisa Malagoli
Sur le détroit de Gibraltar, y’a un jeune homme qui va naître,
qui va être celui qu’les tours empêchaient d’être
Abd Al Malik
Al gattile sono quella con l’intuito eccezionale, per questo mi hanno designata come responsabile dei colloqui pre-affido. Certo non è facile capire chi prenderà l’impegno alla leggera e chi no, ma comunque faccio del mio meglio. Spesso è fin troppo semplice. Come con quella donna bionda con lo zaino di Prada – sono bastate le parole controlli periodici per farle fare dietrofront. Altre volte, invece, capire è più difficile, e allora inizio a parlare di inserimento, attese, firme, e vedo come reagiscono. Se non rispondono con il solito: «Ma siete dei servizi sociali?» è già un ottimo segno. Infine ci sono quelli con cui si va a colpo sicuro. Sono i genitori che spiegano di non volere cuccioli sotto i tre mesi, nonostante i bambini che continuano a piagnucolare: «Ma io voglio un gattino». Sono i giovani pendolari che mi domandano se i gatti soffrono di solitudine, sono le anziane che non sopportano l’odore del pesce ma preparano tonno con cipolla glassata su un letto di mela per i loro ospiti.
La famiglia di Marta faceva parte di quest’ultima categoria. Mentre ponevo loro le solite domande, lei mi guardava seria. Aveva intrecciato le sue gambe a quelle della sedia, dall’interno, e ogni tanto si sistemava il cerchietto con le stelline gialle e grasse per evitare che i ciuffi di capelli le cadessero sulla fronte. A un tratto mi ha puntato l’indice contro e mi ha chiesto: «E tu cos’è che c’hai di speciale che ci fai tutte queste domande?». Il padre ha sorriso e le ha passato una mano sulla testa, e io mi sono appoggiata coi gomiti alla scrivania e ho detto che sono un drago con le piante. Marta non ha sorriso, ha arricciato il naso. Ho raccontato che da piccola ho salvato più piante grasse di quante se ne possano immaginare. Che mia madre diceva: «Sono forti» e non capiva che anche loro hanno bisogno di cose. Una volta, ho sradicato un’agave tutta sola. «Ha bisogno del veterinario delle piante» avevo detto, e mi ero messa a scavare – infilavo le unghie nel terriccio nero. Ho detto a mia madre che l’agave mi aveva chiesto di farlo. Avevo cinque anni e dal dottore ci sono finita io. Ma mentre mia madre mi ci stava trascinando mi è parso di vedere la mia agave ringraziarmi, luccicante com’era, dal suo nuovo angolo di giardino – quello illuminato – e mi sono sentita bene.
E poi ci sono gli animali. A nove anni ho capito che la mia gatta se ne voleva fuggire. Mangiava e beveva, ma aveva smesso di fare i dispetti e guardava sempre attraverso la finestra. Aveva l’abitudine di non allontanarsi mai troppo dalla cassetta postale. Il giorno che l’ho vista in piazza sono corsa da lei e l’ho riportata a casa. Le lastre evidenziavano una macchiolina scura, operabile.
Mia madre ha detto: «È così che fanno i gatti. Se ne vanno a morire da un’altra parte».
La cosa mi ha rattristato. Le ho chiestoil motivo. Pensavo a una questione di pudore – forse non volevano farsi vedere troppo gonfi – o troppo scheletrici.
Lei ha detto: «Perché il dolore non è come un grosso cane. Non sempre puoi combattere».
Ho risposto: «Ma mamma – ma scusa – ci siamo noi, no?».
Mia madre si è passata le dita sottili come rami secchi fra i capelli biondi. «Non siamo un porto sicuro per loro. Cosa credevi?».
Questa storia l’ho raccontata a scuola, qualche anno fa. Stavo ancora alle medie allora – erano i primi anni da insegnante – e sulle carte ero indicata come la neoimmessa. Ma credo che il termine più azzeccato fosse funambula. Spesso mi fermavo sulla soglia dell’ingresso, e restavo a guardare le grandi vetrate che sembravano fatte di ragnatele. Qualcuno doveva averle prese a sassate. Oppure mi bloccavo davanti alla porta dell’aula, a piedi uniti, e stavo un minuto almeno a osservarmi la punta delle scarpe. Mi chiedevo quand’è che mi sarei sentita veramente a bordo. Mi sentivo in bilico, in precario equilibrio. Comunque, ho parlato del gatto ai miei studenti, una mattina di febbraio, e quattro o cinque di loro si sono messi a ridere. La cosa mi ha fatto male. Tutto di loro mi faceva male, allora. Di solito era Hisham a dare inizio ai cori. I miei colleghi non l’hanno mai potuto soffrire perché è sempre stato pigro e poco scolarizzato, ma nelle ultime settimane era molto più di questo. Era imprevedibile come un bambino con un bouquet di petardi in mano. Si faceva trovare in cattedra quando entravo in classe, prendeva il registro in mano e attaccava a strillare: «Ti do una nota!», e lo lanciava in aria. Io dovevo uscire perché mi mancava il respiro.
Ma è stato un altro il giorno in cui mi sono preoccupata per davvero. Quella mattina stavo facendo una lezione sulla resistenza, parlavo del ruolo degli alleati. Ho raccontato che mio padre si chiamava Viliam – cioè William, ma con una V e una sola L – in onore del soldato che aveva salvato mio nonno, e che il suo sogno era quello di vedere l’America. A quel punto Hisham ha alzato la mano, e già questo è bastato ad ammutolire me e gli altri ragazzi. Nessuno era abituato a simili raffinatezze. Ha detto cheanche nel suo paese capitava che i nomi venissero francesizzati. Che durante il protettorato i maestri dicevano a suo nonno che Parigi è il paradiso in terra. Poi ha raccontato di un pomeriggio che la sua famiglia lo aveva portato a conoscere lo stretto di Gibilterra, e ha detto che da lì si poteva vedere l’Europa, le sue luci. Erano così vicine che sarebbe bastato allungare la mano per poterle toccare. Ricordo che c’era un qualcosa nella sua voce, come un’autenticità che non riuscivo a sopportare. È rimasto a guardarmi con quell’aria lì, quella di chi si aspetta qualcosa, quella di chi vuole entrare. Ma allora non avevo spazio dentro, per nessuno, e così non ho detto nulla. Lui ha sbattuto il pugno sul banco si è messo a fare versi di animali – un’aquila, un maiale. La classe è esplosa come un fuoco d’artificio. Ho gridato di piantarla, li ho minacciati tutti. Lui ha smesso, non ha detto più nulla fino al suono della campana.
Quel giorno, in aula insegnanti, ho incrociato la collega di matematica.
Le ho chiesto: «Senti, ma tu Hisham come lo vedi?».
Intendevo dire: «Non ti sembra più inquieto del solito?».
Lei ha risposto solo: «Bocciato, se continua così. Tranquilla che lo bocciamo».
Mentirei se dicessi che fu quello a tranquillizzarmi. Solo, scelsi di non parlarne più.
Marta, il giorno dell’affido, mi ha domandato: «Ma ce l’hai ancora quel gatto?».
Ho risposto no. «Ha aspettato che me ne andassi a vivere da sola e poi è scomparso di nuovo. La seconda volta, però, è stato per sempre».
«E tu ci pensi spesso?».
«Ci ho pensato il giorno che ho sentito la banda, a scuola. Non so perché, ma per me è il suono di chi se ne va». Lei ha piegato la testa di lato, come a dire: che strano.
Già, strano. Quel giorno, al corteo, i ragazzi non hanno smesso per un attimo di sghignazzare fra loro, non esagero. E mentre la preside parlava di non dimenticare, ricordo che a me veniva il vomito.
Dicono che quando scompare una persona è fondamentale la tempistica. Che il settanta percento dei ragazzi viene ritrovato entro una settimana, e che più si dilata il tempo, più le possibilità scendono. Mi sono letta migliaia di statistiche, ho scoperto che i social possono aiutare. Che sono decisivi, più di quanto ci si aspetterebbe – più dei ricordi degli amici, delle parole dei genitori. Per questo mi sono messa a scrivere il suo nome, continuamente, ogni volta che accendevo il computer.
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Ho trovato qualche foto, lui col cappello verde che aveva in classe, lui con i suoi amici a bere chupito. Ho visto un video di lui che cantava una canzone. Ricordo che diceva: «Sur le détroit de Gibraltar / y’a un jeune homme qui va naître». Muoveva le mani come un rapper, le dita stese in avanti, rigide, dietro di lui un muro grigio e un cielo di mattoni. Lui guardava in basso e spostava il peso da una gamba all’altra, come se cercasse un equilibrio. Ho tradotto il testo, parla di un ragazzo che attraversa lo stretto di Gibilterra e nasce per la seconda volta. Era una bella canzone.
Il giorno del corteo, mi sono infilata nei bagni dei ragazzi e mi ci sono chiusa dentro. Mi sono accovacciata, ho sputato un po’ di saliva. Le risate e il suono della banda mi arrivavano lontani. Ho alzato lo sguardo sulla porta verde – era piena di scritte fatte con gli Uniposca colorati. C’erano numeri di telefono, insulti. Un gatto stilizzato. Mi sono chiesta dov’è che vanno i gatti quando scappano, se scelgono un posto preciso o se camminano fino a crollare. Mi sono domandata fino a dove possono arrivare. Se in Francia o più lontano ancora. Quanti confini sono in grado di superare.
Certo che ci penso alla mia gatta. Non l’ho detto a Marta, ma ci penso più spesso di quanto uno possa ammettere. Penso al giorno in cui mia madre mi è venuta a trovare per dirmi che era scomparsa per l’ultima volta.
A lei che mi dice: «Pagherei per sapere dov’è andata a morire».
A me che rispondo: «Preferirei sapere dov’è andata a vivere».
Mia madre mi ha guardata. Dalla sua espressione ero certa che non sapesse di cosa stavo parlando e la cosa non mi ha stupito. Allora sono uscita, ho preso la bici e ho pedalato fino al gattile. Al mio arrivo, un cucciolo è venuto a salutarmi, ha strusciato il naso bagnato contro il mio polpaccio, e io l’ho sollevato, ho trasformato le mie braccia in una fascia per lui. Era pesante, ho dovuto piantare le gambe a terra per mantenermi in equilibrio, per non farlo cadere.
Qui non sanno niente del mio passato, qui mi conoscono solo come quella con l’intuito eccezionale, quella che sa dove vanno a finire i gatti, se in buone o in cattive mani.
Il micio mi guarda con gli occhioni spalancati, lo stringo a me. Penso che non vorrei mai deluderli, che non vorrei mai deludere nessuno. Che vorrei fare del mio corpo un porto sicuro, per tutti.
Lisa Malagoli