Categorie: CulturaLetteratura

La fame di cui abbiamo bisogno

Intervista a Mattia Insolia

di Nunzio Bellassai

Gli affamati sono Antonio e Paolo, due fratelli adolescenti che vivono soli in un’immaginaria periferia del Sud, Camporotondo. Una vita instabile. Il padre è morto, la madre, vittima della violenza del marito, li ha abbandonati. A un tratto, tutto precipita. La madre torna da loro. Un’estate torrida segna il punto di rottura nelle loro esistenze. Rabbia, violenza, desiderio di evasione confluiscono in una narrazione avvincente e spietata.

Laureato alla Sapienza di Roma, Insolia ha studiato Editoria e scrive articoli per il Corriere della sera, Domani, collabora con la rivista online L’indiependente. Gli affamati (Ponte alle Grazie) è il suo romanzo d’esordio. È stato candidato da Fabio Geda tra i 62 titoli proposti al Premio Strega 2021, spiegando che “il patire con Antonio e Paolo spinge a interrogarsi sui privilegi, sui luoghi cui apparteniamo, e ci esorta a immaginare una società capace di farsi villaggio”.

Sei un esordiente. Come sei arrivato dalla scrittura del testo alla pubblicazione?

Un caso molto fortuito. Nel 2019 mi trovavo per conto de L’indiependente al Salone del libro di Torino e in quell’occasione ho intervistato una scrittrice norvergese, Hanne Ørstavik. A fine intervista, come spesso capita, abbiamo parlato, ci siamo conosciuti meglio. Eravamo a Torino e mi ha detto che voleva presentarmi suo marito. Sono stato da loro a Milano. Arrivo e mi trovo davanti Luigi Spagnol. Un mito, un uomo di grande cultura e dall’immensa curiosità. Abbiamo parlato di libri e letteratura. Il romanzo non mi sembrava buono in quel momento, ma a lui è piaciuto subito.

Mattia Insolia

Una delle note di maggiore vivacità del tuo romanzo è scandita dalla presenza di un narratore eterodiegetico, ma coinvolto nei fatti. Un narratore passionato che registra la variazione di toni linguistici e adatta il linguaggio alle esigenze narrative. Uno spettatore che guida il lettore all’interno della trama. A chi ti sei ispirato nella creazione di questo particolare tipo di narratore?

Le prime pagine erano scritte in prima persona, poi mi sono accorto che usare il narratore omodiegetico era quasi impossibile. Ho cercato di entrare nella storia, ma di rimanere sempre un passo indietro. Volevo rimanere in una posizione mediana, tra lettore e scrittore. Ammaniti è sicuramente un modello per me per l’impostazione del narratore. Volevo un’unica storia e punti di vista differenti. Ognuno, in fondo, ha la propria verità. Esistono tante realtà di una stessa vicenda.

I luoghi. Camporotondo non esiste, ma è come se tutti conoscessimo una Camporotondo e la custodissimo negli anfratti più bui della nostra memoria. Una serie di forze centrifughe spinge ad abbandonare il paese in favore della città, alla fine la città vince. La presenza di Camporotondo diventa schiacciante e asfittica, ma esiste secondo te la possibilità di un riscatto?

Nel mio libro penso ci siano quattro protagonisti. Paolo, Antonio, l’assenza e il paese. Il paese doveva avere una sua fisionomia. Camporotondo doveva ricordare un recinto, doveva avere una forma tondeggiante, chiusa. Mi sembrava un’idea spaventosa, claustrofobica eppure l’unica possibile. L’idea della circonferenza. Il paese, in quanto personaggio, non subisce in realtà un’evoluzione nella storia e non credo possa avere speranza di un riscatto. Questo paese ha una reticenza al cambiamento, genera un senso di asfissia. Il riscatto può avvenire solo se cambia la mentalità. Antonio e Paolo possono aspirare a un cambiamento, il paese credo di no.

Camporotondo contava diecimila anime, uno sputo di palazzine fatiscenti nel nulla meridionale su cui l’afa si abbatteva impietosa. Non c’era niente, a Camporotondo. E i suoi abitanti, quel niente, se lo facevano bastare con simulata indifferenza.

L’andamento binario del romanzo segue una struttura ad elastico. I fratelli partono insieme, poi c’è una sequenza dedicata alle vicende di Paolo e una a quelle di Antonio per poi riconfluire al centro, ritrovarsi insieme come nella copertina. Due, come Acciaio, La solitudine dei numeri primi, L’amica geniale. Due è il numero del nuovo romanzo di formazione?

La dualità appartiene alla crescita. Quando siamo adolescenti, viaggiamo su un doppio binario, ci stiamo scoprendo e il fine dovrebbe essere quello di diventare un unico essere. Una sola creatura. Quando siamo piccoli, siamo tutto. Con il percorso di crescita, la vita e la società tendono a chiuderci all’interno di una forma. Nel lavoro, nell’impiego. Anche a livello sessuale. A un certo punto, arrivi alla scelta. L’attimo della scelta, è quello il momento della dualità. La dualità appartiene a una fase di crescita, anche se credo che pian piano si stia scoprendo che non esistono solo unità e duplicità. Molteplicità, fluidità, non esistono confini netti. L’identità è un armadio pieno di vestiti. Scegli chi vuoi essere. Arrivi a un’età sulla soglia della maturità e ti trovi a un bivio, ma non è detto che sia la soluzione.

Se ti dico Premio Strega, qual è il primo pensiero che ti passa per la testa? Il primo autore, la prima opera a cui pensi e perché?

Ansia. Tanta ansia. Il primo nome che mi viene in mente è Ammaniti, ma anche Lagioia. Sono due autori che apprezzo molto. Ho seguito con interesse la loro scalata fino alla vittoria rispettivamente nel 2007 e nel 2015.

Come hai vissuto il lockdown da scrittore?

È stata un’esperienza straniante. Mi ha prosciugato dentro e non sono riuscito a scrivere. O almeno, ho scritto poco. Un racconto sul lockdown di una trentina di pagine. Il paese urlava e io respiravo un’aria di sofferenza generale e condivisa.

Il cammino de Gli affamati è ancora lungo, sebbene la storia sembri conclusa. Quali altri progetti ti attendono per il futuro?

Sto scrivendo un nuovo romanzo. Un’altra storia. Ma è ancora presto per parlarne.

Nunzio Bellassai

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Nunzio Bellassai

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