Gli abiti alla moda. I balli. I servizi da the. I flirt amorosi e le segrete passioni. Le insulse ma appassionanti frivolezze dell’alta società, tra passeggiate all’aperto, finti svenimenti e apparenze da salvare. Potrebbe essere la cornice per un romanzo inglese dell’Ottocento o per un teen drama dei giorni nostri. Se però avete visto Bridgerton di recente, la vostra mente sarà corsa subito lì, e ha fatto bene. È proprio di questo che vogliamo parlare: di Bridgerton, e del motivo per cui dovremmo smetterla di difenderla.
A poco più di un mese dalla sua uscita su Netflix, sugli antenati di questa serie tv è già stato detto di tutto. Voi che leggete, di certo vi sarete già imbattuti nel paragone coi romanzi di Jane Austen passati al vaglio di una lente moderna. Come pure non vi parrà nuova cosa la commistione tra Gossip Girl e Downton Abbey. E allora saprete pure che dietro tutto questo c’è lo zampino di Shonda Rhymes, celebre ideatrice di Grey’s Anatomy e Scandal, e qui produttrice (la firma invece è di Chris Van Dusen). Degli ascendenti di questo coloratissimo drama in costume forse vi è più noto che della trama, passata in secondo piano rispetto all’operazione narrativa – a meno che, ovviamente, non l’abbiate già vista.
Inghilterra, Età della Reggenza. Bridgerton è il “cognome” di una famiglia di visconti, destinata a un balzo di notorietà quando la maggiore delle figlie, Daphne, diventa il diamante della stagione matrimoniale. Una sorta di coccarda nominale appuntata sul suo corpicino da esposizione, dopo il brillante debutto in società al cospetto della corona. Da lì in poi Daphne comincia la caccia al marito, che non è soltanto sinonimo di buon partito ma equivale a coronare il suo sogno d’amore. S’imbatte in un ambito, affascinante quanto ritroso duca che non ha alcuna intenzione di prender moglie, ed è subito chiaro che tra i due prima o poi qualcosa succederà. Attorno a loro alcuni personaggi interessanti, tra cui i numerosi congiunti di Daphne (ben sette fratelli!) e la famiglia Featherington, civettuola e manipolatrice come piace a noi.
L’Età della Reggenza coincide col periodo in cui a tenere il trono fu il principe Giorgio, in luogo del padre re Giorgio III, dichiarato inabile al governo per ragioni di salute mentale. Siamo negli anni tra il 1811 e il 1820, proprio quelli in cui vedevano la luce Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Solo che qui, nella serie tv, sul trono d’Inghilterra non siede il principe, ma la regina consorte, e non è neanche questa la distorsione più grossa. Nella realtà dei fatti, sulla genealogia di Carlotta di Meclemburgo-Strelitz si è a lungo dibattuto: c’è chi la dava per mulatta già al suo tempo, e chi avanzava ipotesi di una discendenza araba o africana. Ma in Bridgerton, signori miei, Carlotta è senza dubbio una donna di colore. Neanche questa sarebbe poi una licenza da far trasalire, considerata la disputa circa i natali della regina. Il fatto è che la sua ascesa al trono avrebbe dato luogo, nell’invenzione televisiva, a una nobiltà multietnica un po’ caucasica, un po’ nera e anche un po’ asiatica. Una bella divergenza dalla storia, non vi pare?
Si tratta di una licenza propria della serie tv, di cui non c’è traccia nei romanzi di Julia Quinn da cui deriva. Più d’uno ha storto il naso di fronte a cotanta sfrontatezza, e se avete conoscenza di tutte le informazioni di cui più sopra, dunque ne sarete al corrente anche voi. Anzi, magari siete stati proprio voi. Ma come, un duca dalla pelle bruna alla corte d’Inghilterra prima che vi arrivasse Meghan Markle?
Pare che il mondo si sia diviso a metà di fronte a Bridgerton, tra i detrattori della sua credibilità e i sostenitori dell’inclusività. Personalmente, dopo essermi schierato tra i secondi, mi sono chiesto perché mai avrei dovuto farlo. Il what-if è un’assodata tecnica narrativa, la stessa che ha portato Philip K. Dick a immaginare cosa sarebbe accaduto se la Germania avesse vinto la seconda guerra mondiale. Potete chiamarla anche ucronia, se volete: è la storia che prende una piega diversa, e mi pare che nessuno abbia fatto tanto lo schizzinoso di fronte a The Man in the High Castle o agli stravolgimenti di The Great, sulle avventure della zarina Caterina.
Ma Bridgerton non è fantascienza. Non è un dramma storico. Non fa piangere, non fa tribolare e la narrazione non assume mai un tono grave. Diciamoci la verità: la tara che pesa su Bridgerton è quella di essere una serie d’intrattenimento destinata a un pubblico prevalentemente femminile, che si propone perlopiù di far sospirare, rilassare, e forse divertire e nulla più. Tutto quello che è stato detto su Bridgerton in suo favore è assolutamente vero, a partire dalla sua anima femminista.
A proposito di Daphne e della sua caparbietà nell’inseguire l’amore a prescindere dalla convenienza. Della sua curiosità sessuale, forse anacronistica, sicuramente impossibile per una donna di quel rango e di quell’epoca. Di sua sorella Eloise, riluttante alle regole della buona società che impongono un matrimonio a tutti i costi, mentre i suoi fratelli maggiori se ne vanno a zonzo scapoli e senza questa spada di Damocle sulla testa. Dell’amicizia di quest’ultima con Penelope, e di come la loro ambizione di realizzarsi al di là di un marito sia assolutamente ispiratrice, condivisibile e all’avanguardia persino per i tempi che corrono.
Sarebbe bello se tutto questo potessimo dircelo alla luce di una semplice valutazione di un prodotto audiovisivo, al vaglio dei suoi pregi e i suoi difetti, senza doverne fare un pretesto per esaltarlo. Se invece di discutere della plausibilità di una nobildonna asiatica nell’Ottocento inglese potessimo ascoltare dei quartetti d’archi che suonano le note di Billie Eilish e Ariana Grande senza farci troppe domande. Se potessimo assumere Penelope ed Eloise a modello auspicabile più di quanto lo siano state le liceali di Beverly Hills, e più credibili degli adolescenti dell’Upper East Side. Insomma, se potessimo godere di Bridgerton per quello che è senza sentire il bisogno di dovercene scusare.
Potremmo persino mettere da parte le sue ambizioni progressiste, egualitarie e femministe, scordarci dei rasserenanti sguardi sui paesaggi aperti e ignorare i costumi delle sorelle Featherington, così accesi e pieni di fiori come solo i quadri di Rossetti sanno essere. A quel punto, non resterebbe altro che l’inciucio, qualche ballo e succulente scene di sesso – tra cui, permettetemi, una così intensa e appagante per entrambe le parti da avermi lasciato soddisfatto quasi quanto loro – e andrebbe comunque bene così. Osservare l’alta società inglese divorare i volantini di Lady Whistledown e fingere di bearsi dello stesso piacere peccaminoso di spiare e spettegolare.
Perché non dobbiamo stare sempre lì a giustificarci se alla lettura d’un libro la sera preferiamo guardare un reality show, se a un concerto rock preferiamo ballare il reggaeton, se a una serie pluripremiata agli Emmy preferiamo Lucifer o La casa di carta. Allora potremmo parlare di quanto Bridgerton sia migliore di quello che pretende di essere, liberandoci di quest’opprimente esigenza di doverci poi giustificare per averla vista. “Sì, l’ho vista, ma solo perché avevo voglia di qualcosa di leggero”, come se ci fosse qualcosa di sbagliato nella leggerezza. Facciamoci un favore: prendiamo tutti i prodotti leggeri di cui abbiamo voglia, assumiamone ogni volta che ne sentiamo il bisogno e accontentiamoci di quanto ci siano piaciuti. Tanto ci sarà sempre qualcuno che proverà a farci sentire mediocri perché non ascoltiamo la musica giusta e non guardiamo le serie giuste. Ma smetterla di scusarci è l’unico modo per non farci sentire inferiori.
Andrea Vitale
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