La narrativa italiana, soprattutto nel primo dopoguerra, si è soffermata tanto sul racconto della provincia, sulla definizione di spazi che sembrano incompiuti, magari in divenire se si parte dall’immaginario cittadino, o utilizzandola (la provincia) come lente d’ingrandimento di problemi sociali e disagi civili che in città, invece, appaiono meno evidenti o quantomeno nascosti. In linea con quest’ottica narrativa si muovono i diciassette racconti che compongono il libro d’esordio di Francesca Mattei, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa (Pidgin). Diciassette storie che si muovono tra strette vie, paesaggi desolati, bar male illuminati e abitate da personaggi anedonici, anestetizzati dalla monotona quotidianità, sempre sul punto di prendere borsa e bagagli e mollare tutto o di esplodere in improvvisi e repentini gesti violenti. Il leitmotiv del libro è dichiarato, in fondo, già nel titolo: c’è un momento (il giorno, quel giorno) in cui tutto cambia, e quel momento non concede previsioni, ma esplode con rivelatoria ferocia.
A tale tensione umana e sociale, però, Mattei aggiunge un elemento che complica il proprio universo creativo e suggerisce al lettore una chiave di lettura per l’intera opera: in una delle pagine finali del libro, nel racconto My Only Sunshine, la voce narrante inizia a dubitare della veridicità dei propri pensieri, ragiona sulle inspiegabili conseguenze che possono provocare pensieri non reali e sembra trovare una soluzione al suo flusso di pensieri in un’ asserzione che recita così: «Qualsiasi fatto assunto come reale dagli uomini sarà reale nelle sue conseguenze». A questa formula il sociologo americano William Thomas arrivò nel 1928 in seguito agli studi su devianza e condanna civile e le diede il nome di Teorema di Thomas. Inserito in un contesto narrativo, il teorema assume un ulteriore significato: cioè rafforza quel pensiero paradossale per cui la letteratura riesca attraverso le storie d’invenzione a raccontarci il mondo reale, la realtà circostante.
Se la ferita dà prurito significa che sta guarendo. Quando la crosta è ancora fresca non si stacca facilmente. Resta umida e molliccia come mollica bagnata e il sangue si rapprende tra i lembi di pelle, come una cerniera. È solo più tardi, quando diventa secca e rigida, che è pronta per essere staccata. Avere le unghie lunghe aiuta, ma non è indispensabile. Se la crosta è in un punto idoneo si può lavorare bene anche di denti. Una volta rimossa, può essere appallottolata tra le dita o allungata come un chewing gum, prima di essere ingerita.
In Croste, fin dall’incipit, possiamo notare che la prima vittima dei pensieri non reali dei personaggi di Mattei è il corpo. In questo caso il dolore, la ferita, diventa materiale, crosta, prova a staccarsi – in effetti si stacca o viene staccato a forza – e poi viene ingerito nuovamente. La materia corporea resta sempre lì, nulla va via. Prima dell’esplosione di violenza, prima che la casa prenda fuoco (appunto), la penna di Mattei indugia sulla precarietà delle sue ambientazioni, dei personaggi, dei loro corpi; e la scrittura di questi racconti, schietta, diretta, ottenuta per sottrazione di elementi, esplode poi nel pensiero laterale, negli istinti crudeli che si insidiano nell’apatia quotidiana. Un caso emblematico di questo meccanismo sono le due folgoranti pagine di Baby-sitter dove la protagonista descrive come «splendida routine» l’ipotesi di poter passare le giornate a seviziare i ragazzini di cui si prende cura: un espediente che suppone l’esplosione di violenza ma ne pregusta le conseguenze.
E al centro di tutto questo, come già accennato, il corpo. Un corpo giovane, performativo, consumato da droghe, alcol, insonnia e segnato da pizzichi, tagli, incisioni. Ne Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa il corpo sa tutto, assorbe i colpi prima della psiche e si espone in maniera risolutiva quando l’ambiente intorno diventa opprimente; come accade alla protagonista di Le vespe di agosto che ritrova il proprio equilibrio soltanto distruggendo, tagliando brandello per brandello, recidendosi anche i capelli, tutto ciò che ricopre la sua pelle.
Apro la porta del bagno e cammino attraverso la stanza. Tutti si muovono a rallentatore e pare che non mi notino o forse non mi vogliono vedere per non dover intervenire. Avanzo piano sfiorando i mobili e vado verso l’uscita. Forse qualche pezzo di vetro è entrato nella pianta del piede, ma non ho sentito niente. Non sento niente, sono tutti muti e lenti e invisibili e io cammino senza capelli e senza vestiti e raggiungo il portone.
Quando esco dal cancelletto avverto il cemento, come quando da bambina correvo fuori per raggiungere la mamma che tornava dal lavoro.
Respiro piano. Per strada non c’è nessuno e neanche un rumore. La Luna in cielo è anacronistica come due gocce di profumo su una lettera scritta a mano. Il prurito è scomparso.
Metto un piede davanti all’altro senza fretta e penso che dovrebbe essere sempre così.
La scena finale di questo racconto ha qualcosa di estremo: porta al limite la condizione del personaggio e la risolve in un gesto liberatore.
Ecco, di questi gesti estremi si compone la scrittura di Francesca Mattei: di gesti che, nel loro impeto, abbattono le sovrastrutture, gli artifici, ed evidenziano il reale.
Antonio Esposito
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