Autobiografia e incidenza storica in Transito di Aixa de la Cruz
Subito dopo aver terminato la tesi di dottorato in Letterature Comparate, Aixa de la Curz (classe 1988) ha iniziato a scrivere, quasi per colmare il vuoto provocato dalla fine di quel progetto, un lungo testo senza forma – un «vomito senza struttura» dice lei in più occasioni – animata da un violento impulso, dall’esigenza di comporre qualcosa che fosse allo stesso tempo autentico e personale. Il risultato di questo lavoro è una specie di diario in cui – è sempre l’autrice a dichiararlo – senza che ci fosse una precisa ricerca, emergono i fatti che più hanno ferito la sua persona. Delle novantamila parole che componevano la prima stesura, solo trentamila sono state salvate dal lavoro di riscrittura e riorganizzazione tematica. Il risultato è Transito (Giulio Perrone editore), un libro a metà strada tra fiction, memoir, autofiction, auto-saggio e che nelle sue pagine mescola autobiografia e incidenza storica.
In effetti è difficile inserire Transito in una categoria. Il libro presenta molte vie di fuga, alimentate dall’autrice stessa fin dalle prime pagine, che partono dal luglio del 2017. De la Cruz racconta, e in parte dileggia, i suoi tentativi passati di ricercare la vera letteratura attraverso opere di pura finzione e torna con la mente a quando era sempre circondata da qualcuno pronto a incalzarla, in merito ai suoi aneddoti quotidiani, con un «di questo dovresti scrivere» e qualcun altro a commentare che «l’autofiction come forma di scrittura la usano solamente i tipi noiosi e tronfi e le signore ebree».
Un simbolico scambio d’opinioni che le permette da un lato di sviare il lettore e dall’altro di dichiarare le proprie intenzioni: «Porti l’incidente scritto su di te. Se ti stanchi di raccontarlo a tutti, lo puoi semplicemente mostrare».
È nel primo capitolo, Incidente, la chiave di lettura dell’opera – la dichiarazione di poetica, se vogliamo – perché in quelle pagine Aixa de la Cruz altera il meccanismo di “patto autobiografico” introdotto nel ’76 da Philippe Lejeune nel saggio che circoscrisse le basi teoriche della scrittura autofinzionale, cioè – in parole povere – la possibilità per lo scrittore di raccontare una storia il cui protagonista porti il suo nome e cognome, e approfitta della complicità del lettore per costruire quel personaggio in comunione; mostrando letteralmente quanto certe esperienze personali (un padre biologico su cui non poter contare, il rapporto conflittuale con la madre, la crudeltà a scuola dei suoi coetanei, un matrimonio precoce, la violenza sessuale), certe letture (la letteratura inglese, le opere di Kafka, Preciado, Virginie Despentes, Donna Haraway…), certa musica (Leonard Cohen, su tutti) e certi fatti di cronaca (il movimento #MeToo, le torture di Abu Ghraib, gli stupri di gruppo) abbiamo contribuito allo scandirsi di un’educazione empatica per l’autrice. Un processo fondamentale da riconoscere perché ha in sé un altro grande tema del libro: la soggettività che diventa pluralità.
Tra le questioni centrali del libro c’è il femminismo, un femminismo che trova le sue più profonde ragioni proprio nella riconsiderazione dell’autrice del proprio ruolo all’interno del tessuto sociale, nella trasformazione, insomma, dell’io in noi. Uno scarto che permette ad Aixa di conoscersi, anche attraverso un progressivo affrancarsi dalla dipendenza dal dolore, prima come donna, poi come donna consapevole del proprio corpo, poi come femminista. Una presa di coscienza che di fatto non risolve tutte le contraddizioni che l’autrice ritrova nella sua esperienza ma che arricchisce la sua capacità di giudizio e le consente di conciliarsi con la propria complessità.
Alla fine questa è l’idea: narrare la mia traettoria, i miei trent’anni di delitti minori, per dimostrare che quasi tutto ciò di cui ho vergogna ha a che vedere con un difetto così paradossale com’è quello della misoginia.
Transito è più di tutto un’opera di formazione, la cronaca di una ragazza che arriva a trent’anni, prende coscienza di essere donna, comprende il senso nascosto di alcuni episodi della sua adolescenza, si confronta con le ferite mai riaperte dei suoi legami familiari e amorosi, e infine diventa adulta. Ma nonostante ciò, noi, da lettori, commetteremmo un grande errore a credere che l’autrice stia parlando esclusivamente di sé. La storia di Aixa de la Cruz ha tutti i connotati del racconto generazionale e porta dentro un’indicazione di metodo: l’invito a guardare in faccia la violenza e combatterla.
Antonio Esposito