Sappiamo tutti che anno terribile sia stato il 2020 per il cinema. Sale chiuse, eventi a distanza, e soprattutto titoli annunciati e mai distribuiti. Mesi e mesi di vuoto totale in cartellone. Così, quando le nomination agli Oscar sono state rese note, la sensazione era quella che ci dovessimo un po’ accontentare di quel che passava il convento. Pur senza ricordare i nomi di quei progetti annunciati e poi rinviati, abbiamo tutti pensato che ci fossimo persi qualcosa. Che tradotto vuol dire, con un po’ di malignità, che se il 2020 fosse stato un anno come un altro molti di quei film non ci sarebbero mai finiti in gara. E a questa considerazione ne sono seguite altre due o tre a freddo, e qualche riflessione più ragionata.
La prima impressione è che, da una rapida occhiata ai film in gara, appare subito chiaro che questa è un’edizione politica. Nell’ultimo anno gli americani hanno vissuto le proteste del Black Lives Matter, attraversato un turbolento insediamento presidenziale e sperimentato (come il resto del mondo) gli orrori della pandemia. La cerimonia del 25 aprile ce ne ha dato conferma, quando Regina King ha attraversato l’Union Station per salire sul palco come primo presenter della serata – vale a dire un’attrice che quest’anno ha fatto il suo debutto alla regia con un film su quattro icone del popolo afroamericano, tra cui Malcolm X – con un discorso che richiamava il recente processo per George Floyd.
Del resto, gli Oscar sono sempre stati una faccenda politica. Le scelte dell’Academy sono state spesso orientate, anche in tempi non sospetti, verso film che si imponevano al di là del loro valore artistico. È quel che accadde quando Moonlight vinse il premio più ambito, quando tutti credevano che sarebbe andato invece a La La Land; o ancora quando Black Panther, nel 2019, divenne il primo cinecomic a essere mai candidato all’Oscar al miglior film, alla faccia di quanti avevano invano invocato una nomination per Il cavaliere oscuro anni prima. Quelli con più memoria ricorderanno anche il caso del 2006, quando Crash – Contatto fisico vinse a scapito del favorito I segreti di Brockeback Mountain: il primo aggiungeva un tassello alla battaglia culturale contro il razzismo, ma nella memoria collettiva rimase poi il secondo.
Ed eccoci qui, all’edizione del 2021. La 93esima, quella che ha l’aria di essere la più inclusiva e variegata della storia, non importa che lo sia davvero (e, come vedremo, non lo è). Donne, europei, asiatici e asiatico-americani candidati nelle categorie principali, là dove non siamo abituati a vederli. La cinquina per la miglior regia è decisamente la più innovativa: non solo due donne – due! – candidate contemporaneamente, ma anche un europeo e un americano di origine asiatica. Merito dell’allargamento dell’Academy degli ultimi anni alle minoranze meno rappresentate, certamente. Merito soprattutto dei tempi che corrono e di quest’annus horribilis, dove sembrava impossibile premiare, guardare o anche solo produrre film come Joker o C’era una volta a… Hollywood.
È chiaro che l’assenza dei grandi competitor abbia dato una chance ad altri film di salire alla ribalta. Tolti i vari Scorsese e Tarantino, i DiCaprio e i De Niro, le Amy Adams e le Emma Stone, abbiamo potuto vedere più in là delle prime file. Ed eccoli lì, Una donna promettente, Minari, The Father, che ci salutano con la mano cercando di farsi notare. Ma, ecco – e questa è la nostra seconda riflessione – è davvero giusto considerarli come degli outsider baciati dalla fortuna? Forse no. Non possiamo sapere come sarebbe andata se i cinema non avessero mai chiuso durante il 2020. Magari Nomadland non avrebbe vinto, ma pare improbabile che non avrebbe ottenuto comunque la nomination, con quell’atmosfera un po’ Terrence Malick e un po’ Into the Wild, le lodi sperticate alle performance e alla fotografia, e così intriso di recente storia americana. Pure gli altri film succitati, credeteci, non sono da meno.
L’impressione che, dopotutto, non ci sia andata poi tanto male è confermata da un’altra constatazione: anche in un anno che ha visto molti titoli essere posticipati a oltranza, non sono mancati i grandi esclusi. In molti si sono chiesti dove fosse la nomination per Mai raramente a volte sempre – ben il 99% di recensioni positive su Rotten Tomatoes – o per The Mauritanian, fresco di successi ai BAFTA e ai Golden Globe. Oppure come mai, in un anno che ha registrato un significativo numero di uscite dirette da registi di colore, soltanto uno sia stato candidato al miglior film. Perché, per esempio, gli osannati Sylvie’s Love, Miss Juneteenth e The Forty-Year-Old Version siano rimasti a mani vuote, e Da 5 Bloods – Come fratelli di Spike Lee abbia concorso solo per la colonna sonora.
Da questo punto di vista, sembrerebbe sia andata meglio nelle categorie attoriali, dove figurano ben sei interpreti di colore. Una cifra, però, che non sa affatto di nuovo, essendo esattamente uguale al numero di attori di colore candidati complessivamente nel 2017. Anche le vittorie ci dicono qualcosa su quanto quest’edizione sia stata effettivamente innovatrice. Se pure tra gli attori non protagonisti trionfano il britannico Daniel Kaluuya e la sudcoreana Youn Yuh-jung, sono Anthony Hopkins e Frances McDormand a portarsi a casa i premi come protagonisti. Cioè due attori già consacrati in passato da (almeno) una statuetta.
A conti fatti, l’unica cinquina rivoluzionaria è stata davvero quella dedicata alla regia – questa sì che, in termini di cambiamento, ha fatto meglio del 2017, quando in gara c’era una sola donna, un messicano e un afroamericano. D’altronde, era pure inevitabile che il contesto sociale, politico e culturale in cui ci muoviamo avrebbe avuto la sua ricaduta anche sull’evento cinematografico più importante del mondo. Ripensare gli Oscar, a partire anche dalla stessa cerimonia, sembrava quasi obbligato.
E qui arriviamo alla nostra ultima considerazione. Chi dice che gli Oscar 2021 siano stati rivoluzionari come non mai, segnando uno scarto rispetto alle precedenti edizioni, si sbaglia. Chi dice che non lo siano stati per niente sbaglia altrettanto. Perché questi Oscar hanno fatto un passo avanti nella loro marcia di rinnovamento, che non esisterebbe però senza quelli fatti in precedenza. Perciò vanno ricollocati nella giusta posizione: non all’inizio di un’epoca di rinnovamento, ma lungo la sua naturale linea di sviluppo. Non alla fine, si spera, ma nel mezzo: questo dipenderà da come agiremo in futuro. Da quante donne, neri, asiatici, europei, sudamericani saremo in grado di candidare. Dalle opportunità che sapremo concedere ai loro film, che ne siamo i produttori oppure semplici spettatori. Dal modo in cui riusciremo ad aprirci a un altro tipo di cinema. Allora potremo osservare questi Oscar da una nuova prospettiva, e capire se abbiamo saputo giovare della crisi o è stata un’occasione mancata.
Andrea Vitale
Nobody Wants This è una boccata d’aria fresca nel panorama delle commedie romantiche. Perché la…
#gradostory Gomito alzato, pistola in pugno. Sguardo fisso all’orizzonte – chiuso. Una flotta di navicelle…
#gradostory Somewhere Only We Know, canzone pubblicata dalla rock band britannica Keane nel 2004, è…
Condominio Ogni mattina, alle 4.50, l’inquilino dell’interno 6 prepara il caffè in cialda. Dal momento…
Quest’estate sono entrato in una libreria con la semplice intenzione di dare un’occhiata in giro,…
L’uomo davanti a me s’infila il dito indice nel naso. Avvita, avvita, avvita, fin quando…