Racconto: Test di realtà – Gioacchino Lonobile
Quando il telefono vibrò erano già passati il 103, direzione piazzale John Lennon, e due 101, Stazione Centrale-Stadio. Lesse il nome sullo schermo: era fittizio, perché al momento di registrarlo non aveva osato chiedere quello vero e da allora non lo aveva mai cambiato. Non si sentivano da mesi, o forse da più di un anno.
Ogni conoscenza è due volte falsa: perché i sensi forniscono dati imprecisi, e perché questi dati non sono altro che impulsi elettrici.
G. non esitò a rispondere.
«Sono tornati» disse la voce senza nemmeno salutare. «Sono tornati a chiedere di Bertrand Rates» precisò la donna, senza che G. avesse avuto il tempo di chiedere chi fosse tornato e da dove. La voce che quasi non riconosceva più – aveva preso un nuovo accento dopo la partenza – ritenne che non ci fosse altro da aggiungere.
Quarantatré minuti d’attesa. G. strinse le dita in un pugno e vide le nocche diventare bianche. Aveva il volto gonfio, gli occhiali scuri, la barba di qualche giorno fin sopra gli zigomi, la camicia con le maniche arrotolate attaccata al corpo e lo zaino sulle spalle. La mano destra si chiuse ancora, per poi riaprirsi un istante dopo. In circostanze in cui si sentiva a suo agio, G. riusciva a non compiere quel gesto anche per cinque minuti, seppure lo spasmo a volte, come saturo di energia potenziale, era tanto violento da obbligarlo a contrarre il viso in un’espressione che poteva essere scambiata per rabbia o per terrore.
Due uomini aspettavano il bus. Capì dai loro discorsi che uno di loro cercava lavoro.
«Sono sicuro che questa settimana qualcuno mi chiamerà» diceva, anche quando l’altro cercava di cambiare discorso. Aveva sentito che i cassamortari cercavano gente per sistemare i morti: trasportarli, vestirli; pagavano cinquanta euro.
«Al giorno?» chiese l’altro.
«No, a morto» rispose; ma tanto non se la sentiva di toccarli, alla sua età poi, glielo aveva detto anche sua moglie che non era un lavoro per lui. L’assistente sociale lo rimproverava di non aver trovato ancora lavoro, se era così brava perché non glielo trovava lei. Quella settimana qualcuno lo avrebbe chiamato, continuava a ripetere.
I due salirono sul bus, G. decise di aspettare il successivo.
*
G. strinse il pugno e fece un respiro profondo. Quando si controlla il respiro si riesce a controllare il corpo, ma anche la mente e i pensieri. Tra tutte le tecniche di autocontrollo quella del respiro è la più difficile da eseguire, è estenuante, anche quando non si trasforma in nausea e capogiri: in quel caso diventa distruttiva. Respirare in maniera controllata rende consapevoli di ciò che è reale, svela gli inganni che i sensi creano di continuo.
La porta si aprì, G. l’attraversò e raggiunse il fondo del bus, non alzò mai lo sguardo dai suoi piedi, né mai rilassò i muscoli della mano destra. Una donna stava seduta con un bambino tra le braccia: lo stringeva in una sorta di dispositivo di sicurezza naturale. Un gruppo di ragazzi insieme a una coppia d’anziani attendevano la prossima fermata.
Erano tornati a chiedere di Bertrand Rates, pensò G., chi si ricordava ancora di quell’uomo?
Si girò verso la porta che stava per aprirsi, e fu un attimo: provò a buttar fuori l’aria dai polmoni, ma non sentì uscire nulla dalla bocca, ne cercò di nuova da inspirare e non ne trovò. Doveva uscire, doveva sempre uscire. Si affrettò verso le porte centrali, i sedili ai lati sembravano congiungersi rendendo il corridoio sempre più stretto. Doveva uscire, doveva sempre uscire, adesso più che mai; si fece largo con le braccia, il busto proiettato in avanti, giunse con l’affanno, ma era troppo tardi. Batté i palmi sulle ante della porta, si sforzò, ma nessun suono gli uscì dalla gola, come in un incubo. Appoggiò la fronte sul vetro, le mani scivolarono sconfitte sulla gomma, alla stessa velocità gli si piegarono le ginocchia, ancora non respirava. Nel mondo reale passarono uno, due secondi e la porta si aprì, G. si sbilanciò in avanti e cadde. Si trovò a terra a quattro zampe, per metà sul marciapiede davanti la Rinascente e con la parte posteriore del corpo ancora sul bus; rimase immobile, intontito, non sentiva alcun dolore. L’autista suonò il clacson che lo riportò alla realtà: il sudore sulla fronte e sul petto, l’aria che entrava dalla camicia. Quel suono non chiedeva cosa gli fosse successo, non mostrava pietà o empatia, ma diceva solo una cosa: o sali o scendi. Ancora in quella posizione, come se fosse regredito all’infanzia, G. si spostò in avanti, le porte si chiusero e l’autobus ripartì. Riuscì a trascinarsi fino alla vetrina del grande magazzino, si sedette, appoggiò la schiena e mise la testa tra le ginocchia. La gente continuava a camminare come se non lo vedesse, G. strinse la mano destra e poi rilasciò i muscoli. Un istante, anche solo un istante in più dentro l’abitacolo sarebbe stato fatale, sarebbe morto, ne era certo, ma non di una morte semplice, in cui le forze vitali lo avrebbero abbandonato in maniera graduale, facendolo afflosciare come un sacco vuoto, no, sarebbe scoppiato: un’esplosione generata da un’energia interna che non credeva di possedere; il suo corpo ridotto a brandelli, i vestiti in stracci, le sue cellule sparse sui finestrini, sui sedili, sulla donna con il bambino, sulla coppia d’anziani, sul tetto, ovunque, particelle umane senza un nome, un altro scomparso tra gli scomparsi. Questa volta, però, non era successo: era fuori, all’aria aperta ed era l’unica cosa importante.
Per quanti sforzi facesse non sarebbe guarito, non si poteva guarire.
*
Il nodo alla gola che gli si era formato si stava sciogliendo, G. lo sentiva al tatto massaggiandosi il collo. Nessun essere vivente aveva la percezione di ciò che avveniva dentro di sé: i processi interni, gli scambi molecolari, le connessioni elettriche tra le cellule nervose. Avrebbe dovuto riprendere il controllo del respiro, recuperare le forze, alzarsi, ripercorrere la strada verso casa, magari passando dal porto, evitando la calca, respirando l’aria di mare. Che sciocchezze. L’odore, il colore del mare, ma anche la strada che si sceglie di percorrere sono frutto di un lavoro che avviene all’interno, di cui non si ha né coscienza, né padronanza. Se le percezioni coincidono a quelle mediate da un corpo, un cervello in una vasca non è in grado di stabilire se è un cervello in una vasca. Doveva concentrarsi, alzarsi da quella posizione, provarci almeno. Fece un respiro lungo e profondo, poi un altro, strinse il pugno lo riaprì e poggiò le mani a terra, fece forza sulle ginocchia, e con uno sforzo che gli parve immane fu in piedi; era madido di sudore. Il peso di ogni passo gli faceva trascinare i piedi, quell’andatura incerta accompagnò G. per una decina di metri, fino in piazza, dove stremato si sedette su una panchina. Dopo aver recuperato le forze prese il telefono e cercò il nome fittizio tra le ultime chiamate.
«Stai bene?» chiese. Adesso era lei a non riconoscere la voce di G.
«Sì, sì. Devo chiederti una cosa: prima hai detto che sono tornati, sono tornati per chiedere di…».
«Bertrand Rates».
«Sì, esatto, chi erano?».
«Due giovani, non li avevo mai visti».
«Giovani?» chiese stupito.
«Sì, ben vestiti. Sei sicuro di star bene?» chiese la donna dopo qualche secondo di silenzio.
«In effetti non sto un granché bene. Ci vediamo in giro allora» G. non trovò di meglio da dire per congedarsi.
«Sarà difficile vederci in giro» rispose ironica.
«Tutto sarà difficile» disse G.
Bertrand Rates, G. scandì una lettera dopo l’altra, quasi a voler dare a quel nome consistenza fisica, un corpo. Un corpo intrappolato, anch’esso, nell’illusione del reale. Abbassò il capo e attaccò il mento al petto, come se la testa fosse troppo pesante da reggere. L’esperienza è conoscenza superficiale; diventa pensiero solo quando è modellata dalla ragione, unica via verso ciò che è reale. Strinse il pugno una, due volte in successione e trovò l’energia per alzare la testa, prendere ancora il telefono e digitare un nome. Comparve il trafiletto di un giornale vecchio di vent’anni ripubblicato da poco: “Bertrand Rates: teorico del realismo interno; esperto di tecniche di respirazione e di test di realtà di semplice applicazione”. Ecco dove lo avevano trovato.
G. alzò la mano destra, la fissò, come se non l’avesse mai vista prima, strinse il pugno, non a causa del solito gesto involontario, lo fece in maniera consapevole, ma non sentì nulla; strinse più forte, fino a piantare le unghie nel palmo della mano, ancora niente, nulla di nulla: prova di realtà fallita.
*
Si trattava d’aspettare, sarebbe passato, passava sempre; se solo avesse avuto le sue gocce: ne sarebbero bastate otto, massimo dieci. I test di realtà, a cui certo bisognava dare merito, ormai non funzionavano più, ma doveva provare ancora, in quel momento non poteva fare altro, riprendere il controllo del respiro: ispirare, uno, due, tre, espirare e poi ancora e ancora fino a farlo diventare un atto automatico. Aspettare, pensare ad altro; cercò di distrarsi seguendo il flusso del traffico, leggendo le insegne dei negozi, rivolse lo sguardo alla grande chiesa che stava a un angolo della piazza. Era stato in quel posto decine di volte, ma in quello stato era come se lo riconoscesse a stento, come se qualcuno si fosse divertito a restringere una stradina laterale, o a spostare una panchina, a ridipingere l’inferriata attorno alla statua, piccoli particolari che insieme cambiavano la prospettiva totale. G. aveva provato quella stessa sensazione di straniamento un’altra volta. Era entrato nella stanza che gli avevano indicato; era solo, come si può essere soli quando si è insieme a una persona morta. Rimase in piedi, ignorando la sedia accanto alla salma.
Davanti a un caro amico, a un fratello, a un genitore e ancor più a un figlio morto, guardando il loro corpo, il loro viso, molti dicono di non riconoscerli, forse perché non accettano la dipartita. Capiscono che è quello un volto familiare, ma qualcosa sfugge: la somma dei particolari non dà il risultato a cui sono abituati. Solo un occhio attento però può accorgersi di quelle anomalie, come se la morte abbia pietà dei familiari e gli conceda ancora una speranza.
«Sono loro, ma non sono loro», così dicono.
Quando lo vide G. strinse i pugni, una, e poi un’altra volta per essere sicuro, il respirò accelerò privo di controllo. Vide le tempie sporgenti, gli occhi infossati, la sua già piccola statura che pareva essersi ristretta. Forse era normale, capitava ogni volta. Bertrand Rates, il suo maestro, era lì disteso: era lui, ma non era lui.
In quel momento il telefono tornò a vibrare.
Gioacchino Lonobile