Fifty-Fifty, ovvero i mirabolanti virtuosismi dell’idioletto senigagliano
Ezio Sinigaglia ci regala un serissimo divertissement letterario intitolato Fifty-fifty (Terrarossa Edizioni), un romanzo nel quale l’autore lascia esplodere generosamente tutto l’umorismo di cui è capace, declinandolo in ogni possibile variazione: dalla comicità al sarcasmo, passando per le raffinate vie dell’ironia e le forzature del grottesco. Solo i motti di spirito sembrano essere stati esclusi con disgusto, bollati come “battute di terz’ordine” che possono suscitare qualche mezza risata solo nei circoli viennesi frequentati da Freud. La frecciatina scoccata alla psicoanalisi è chiara, ma in questo caso la critica sembra avere delle motivazioni più profonde, senz’altro riconducibili alle fin troppo ferree distinzioni dell’orientamento sessuale operate da Freud, che malvolentieri si accordano ai sentimenti del protagonista Aram.
Aram, infatti, prima di innamorarsi non bada al genere della persona di cui si innamorerà: maschio o femmina, per lui poco importa. Per lui importa solo la persona. Già questo potrebbe parzialmente spiegare il titolo, che ricalca una popolare espressione inglese per indicare nel calcolo combinatorio qualcosa che abbia la medesima probabilità di riuscita tra due eventi possibili. L’uno o l’altro, cinquanta percento A e cinquanta percento B, fifty-fifty.
La comicità del linguaggio reiventato
Il titolo non è l’unico anglicismo. Anzi, a essere pignoli, bisognerebbe dire che non è l’unico termine preso in prestito da una lingua straniera. Sì, perché, Ezio Sinigaglia si diverte a giocare con gli idiomi stranieri e a piegare l’italiano mettendo in risalto tutta la fragilità della lingua, piegandola a neologismi, forestierismi e arcaismi che evidenziano persino la natura comica del linguaggio, così come veniva postulato da Umberto Eco nelle sue teorie semiotiche sul comico – formulate e contemporaneamente applicate alla Cacopedia – o come si poteva già rilevare negli Exercices de Style di Raymond Queneau ai tempi dell’OuLiPo. Ezio Sinigaglia, non a caso, è un patito del calembour, della frase a effetto, del gioco linguistico ed enigmistico, di indovinelli e sciarade. La sua scrittura caleidoscopica assorbe tutta l’attenzione, forse spesso anche a scapito della storia, come una stella enorme che risucchia su sé medesima la sua stessa luce e cattura anche tutto il resto che le gravita attorno.
Dicevamo che il linguaggio è il vero protagonista di questo romanzo. Certo, c’è spazio per sentimenti teneri e nobili, per interazioni fisiche e voluttuose, ma tutto sommato si tratta di storie comuni, che toccano la quotidianità di molti; è invece il modo di raccontare tali storie, lo stile, la destrezza affabulatoria, il virtuosismo lessicale e sintattico – per dirla con un’espressione, l’idioletto sinigagliano – a rendere unica questa esperienza di lettura. Ogni personaggio ha un soprannome. A volte questo soprannome suona germanico, come la congiunzione interrogativa tedesca “Warum”, che rivela la curiosità e la perspicacia del protagonista e voce narrante Aram; altre volte suona francese, come nel caso della Bauharnais, arguta e voluttuosa moglie di Aram, il cui soprannome si ammanta di connotazioni che vanno dall’erudito citazionismo storico (moglie-amante-amica di Napoleone?) a più salaci riferimenti che ricalcano la traduzione letterale di quel nome. E poi c’è Fifì, l’amato di Aram, il cui vero nome è Stefano, che diventa Fifì quando è schernito, Phephen quando è vezzeggiato, e Fefanòth quando è idolatrato e innalzato al rango di creatura angelica. Fifì ha un’assonanza significativa con lo stesso titolo del romanzo, che sembra proprio a lui dedicato, e che incarna la teoria del mezzo-e-mezzo, dell’ambiguità, grazie alla sua peculiare caratteristica di amare totalmente con lo spirito senza concedersi fisicamente.
Parodie cavalleresche
Bisogna ammettere però che, dietro alle arguzie linguistiche e allo stile accattivante, Sinigaglia ci presenta con sincera semplicità i conflitti interiori che si annidano nel cuore di tutti gli innamorati, ora rifiutati e gelosi, ora in preda a profonde frustrazioni e malinconie. Per fortuna, le amarezze che ha in serbo la vita possono essere combattute con una buona dose di ironia, ma soprattutto con il conforto di qualche vero amico, come Stocky, il pianista ruffiano, genio della musica e strumentista talentuoso, capace di rievocare le note più nascoste dell’animo di Aram, sepolte nelle pieghe dell’infanzia e richiamate al presente con l’esecuzione di un preludio impressionista, ma anche capace di duettare con lui in un esilarante pastiche cavalleresco sulle orme di Ludovico Ariosto, cimentandosi in una parodia poetico-musicale strappalacrime (per le risate, sia ben inteso) che vela in sottotraccia la metafisica di un impacciato autoerotismo.
Un finale in sospeso
Leggendo questo romanzo di Ezio Sinigaglia si ha l’impressione che lo scherzo onnipresente non sia, però, mai fine a sé stesso. Sembra piuttosto un escamotage per criticare il potere e la saccenza, l’ingiustizia e l’inadeguatezza, per mostrare un sorriso amaro di fronte alle incongruenze della vita, come una cattedra universitaria immeritatamente ricoperta da certi professori ignoranti e raccomandati, o certi editori spilorci che si arricchiscono alle spalle di traduttori malpagati (ma che si beccano delle bozze fantasiose e piene di aggiunte assai lontane dall’originale). E mentre si snodano, pagina dopo pagina, figure retoriche e situazioni facete, aspettiamo il continuo della storia; perché una cosa è certa: il finale è aperto e prelude inesorabilmente, come una promessa, a un prosieguo.
Giuseppe Raudino