Adolescenza di carne e violenza: Mandibula di Mónica Ojeda
«La cosa peggiore non era il dolore pulsante alle membra. Né l’odore del corpo, un ammasso fetido di sudore e piscio che imponeva la sua sporcizia sul mondo lindo della baita. […] La cosa peggiore era che fossero passati due giorni dall’ultima volta in cui aveva avuto dignità».
Mónica Ojeda, classe ’88, è una delle voci più promettenti della letteratura latino-americana contemporanea. A confermarlo una lunga lista di candidature e riconoscimenti che hanno travolto la scrittrice ecuadoriana negli ultimi anni: finalista al Premio Ribera del Duero (concorso letterario biennale dedicato al racconto), tra le 25 migliori giovani scrittrici in lingua spagnola per la rivista «Granta» e con il suo terzo romanzo, Mandibula, è stata inclusa tra i finalisti al Premio Bienal de Novelas Mario Vargas Llosa nel 2018.
Leggere Mandibula, primo lavoro dell’autrice a essere pubblicato in Italia dai tipi di Alessandro Polidoro Editore nella traduzione di Massimiliano Bonatto, è stata un’esperienza sconvolgente e per nulla semplice. Un romanzo del genere va avvicinato con la giusta consapevolezza. Il lettore deve essere pronto a masticare parole impastate con il fango e la violenza di un’adolescenza diversa, un’adolescenza che non lascia spazio all’ingenuità, bensì protende con forza verso una spregiudicata ‒ seppur acerba ‒ nuova femminilità. Nuova perché influenzata dall’uso dei social, da quelle donne che rivendicano l’essere non più prede, ma cacciatrici, non più apatiche spettatrici, ma artefici delle proprie vite riappropriandosene senza dover chiedere il permesso a nessuno.
Le protagoniste del racconto sono ragazzine benestanti, viziate e, soprattutto, annoiate, pronte a tutto pur di sfidarsi e sfidare; sono appassionate di creepypasta e ne inventano alcune dando inizio al culto del Dio Bianco (entità polimorfa che sublima orrore e ferocia). A loro si aggiunge un’insegnante terribilmente marchiata dal rapporto simbiotico (e malato) con la madre dalla quale ruberà postura, abbigliamento e carriera fino a diventare un suo inquietante riflesso.
Puzza di piscio e sudore; sesso che si gonfia, pulsa e risveglia; rapporto dicotomico e conflittuale tra madre e figlia, allieva e insegnante, amiche/amanti/quasi-sorelle; bianco folgorante che riflette e annulla, confonde e paralizza, fa rabbrividire; sfide adrenaliniche e storie del terrore: già nell’esergo iniziale, «Madre Figli Sorella / È una trilogia non prevista dalla Psicoanalisi», l’autrice chiarifica le sue intenzioni e l’universo nel qualesi snoda la sua esplorazione.
Il romanzo, sfaccettato e disturbante, attraverso gli strumenti della sospensione, del non detto, di alternanza di punti di vista, flashback e conversazioni a senso unico, incaglia il lettore in una rete di vicende violente, perverse e crude, di una crudezza che sa di ribellione.
Inizia in medias res: Fernanda, giovane studentessa di una elitaria scuola bilingue, High-School-for-Girls, gestita dall’Opus Dei, si risveglia legata e dolorante in una «baita o casupola di legno scricchiolante». Dopo un iniziale momento di confusione, la ragazzina riesce a dare un volto e un nome alla sua sequestratrice: Clara López Valverde, sua professoressa di letteratura.
A questi due personaggi, con i quali il lettore prende subito confidenza, si affiancano: Annelise, leader del gruppetto di adolescenti di cui Fernanda, sua migliore amica, fa parte; famiglie inesistenti; un terapeuta fantasma; una madre che chiama la figlia Vitella e sembra esserne schifata.
Mandibula è una storia di frantumaglia, dove la paura non viene allontanata, ma ricercata, accolta e addomesticata; il terrore serve a mantenere in vita, a distrarre, a completare esistenze privilegiate e all’apparenza ordinarie. Ma dalle pagine emergono, con deflagrante intensità, sangue e amore. Sangue di mestruo e di ferite. Amore che sfocia nellacarnalità del morso vampiresco, come quello tra Fernanda e Annelise, o amore incestuoso, come quello di Clara per la madre.
«“Ti amo, mamma” le disse e provò un desiderio indescrivibile che, con gli anni, le sarebbe stato ancora più misterioso. Non seppe mai che cosa scatenò in lei quella passione indecorosa e infantile che la portò ad avvicinarsi alla bocca di sua madre e baciarla leccandole i denti, ma piombava in una vergogna profonda ogni volta che ricordava i dettagli: gli occhi di Elena come due serpi rosse, il colpo in fronte, il modo in cui la spinse, atterrita, come se l’avesse scoperta a fare qualcosa di innominabile».
La costruzione delle frasi rinnega la linearità così come la successione degli eventi riportati; i livelli temporali si confondono, la lingua si imbarbarisce, i corpi si deformano e deumanizzano, quasi a voler sottolineare la bestialità che collega donne perturbanti e succubi dei loro stessi demoni.
Un romanzo in cui le donne si sfidano, tra citazioni colte, narrazioni che strizzano l’occhio alle atmosfere lovecraftiane e al thriller psicologico, vomitando dolore, turbamento, bestialità, e in cui «L’adolescenza ha un che di pericolosamente indefinito, un vuoto, un potenziale che può esplodere in qualunque direzione e che la rende molto diversa, addirittura opposta, a tutte la altre età».
Nicole Zoi Gatto