Categorie: Cultura

La crisi del linguaggio nel 2021: “Lingua Madre” di Maddalena Fingerle

C’è un saggio di Nietzsche, scritto nel 1873 e pubblicato postumo, che si intitola Su verità e menzogna in senso extramorale. In questo libello, Nietzsche esprime la sua posizione riguardo al linguaggio:

“Le diverse lingue, poste l’una accanto all’altra, mostrano che nelle parole non ha mai importanza la verità, né un’espressione adeguata. In caso contrario non esisterebbero infatti così tante lingue. La “cosa in sé” […] è d’altronde del tutto inafferrabile per colui che crea il linguaggio”. [1]

Circa trent’anni più tardi, Hugo von Hofmannsthal, poeta prodigio della Vienna fin de siècle, avrebbe scritto la sua Ein Brief, la lettera di Lord Chandos [2], in cui un nobile scrittore, tale Lord Chandos, scrive a Francesco Bacone che non potrà più dedicarsi alla scrittura, in quanto “ho perduto ogni facoltà di pensare o parlare coerentemente su qualsiasi argomento”. 

Queste sono le premesse della Sprachkrise (crisi del linguaggio), quel sentimento d’incertezza provato da molti autori a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo nei confronti della loro lingua, che non sembra più in grado di cogliere il nesso tra la realtà e la verità oggettiva delle cose. È proprio questo il sentimento che anima il protagonista del romanzo d’esordio di Maddalena Fingerle Lingua Madre, edito Italo Svevo edizioni. Paolo fin da ragazzino mostra una vera e propria ossessione per le parole: non a caso, arrivato a Berlino legge Karl Kraus (altro importantissimo critico del linguaggio) e Thomas Bernhard (che nel romanzo autobiografico Il freddo [3] dice che: “Il linguaggio non serve quando si tratta di dire la verità, […] non riproduce che un’autenticità contraffatta, un quadro spaventosamente deformato [4]”). Nello specifico, Paolo Prescher ha un’ossessione per le parole “pulite” [5], che lui definisce nel seguente modo: 

Le parole pulite sono così: dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o che le sporcano.

Maddalena Fingerle, foto di Julia Mayer

È quello che Nietzsche chiamava “la cosa in sé”, che tramite la mediazione della metafora, del suono e, infine, della parola, rimane a noi totalmente inaccessibile. A rendere il tutto ancora più interessante è anche l’ambiente in cui cresce, ovvero Bolzano, un contesto in cui il problema della lingua in cui esprimersi, italiano o tedesco, è centralissimo:

Spesso in testa dico una cosa in italiano, e in tedesco o me ne viene un’altra simile o a volte completamente diversa: è come se ci fossero due persone, una italiana che parla dentro e una tedesca che parla fuori.

Paolo cresce, inoltre, in un ambiente familiare molto particolare, che vede da un lato un rapporto altamente conflittuale con la madre, dall’altro un padre che ha deciso di non parlare più (problematico quanto lui, forse anche di più). Finita la scuola dell’obbligo, e dopo aver vissuto un trauma che scuoterà il suo mondo fino alle fondamenta, il ragazzo prende due decisioni: la prima è di non parlare mai più italiano; la seconda è di andare a vivere a Berlino. Nella capitale la sua vita cambia totalmente, in particolar modo grazie all’incontro con Mira: senza svelare nulla, dirò solo che le cose prenderanno una piega tale da far prendere a Paolo un’ulteriore decisione, inaspettata per certi versi, che senza di lei, forse, mai avrebbe preso. 

Un romanzo che ha come tema principale la lingua non può che essere scritto in maniera altrettanto peculiare. Man mano che Paolo cresce, la lingua, inizialmente adolescenziale, si evolve, tenendo però come punto fermo l’ossessione per la parola. Il culmine di questo processo lo troviamo nelle ultime, deliranti pagine del romanzo, in cui tedesco e italiano, pensieri e parole si confondono, fino a non capire se, effettivamente, a quello che si dice corrisponda la realtà. Trovare la voce di Paolo, come ha dichiarato in un’intervista l’autrice stessa, è stato un processo non privo di difficoltà, ma possiamo affermare che la voce che ha trovato è autentica. Nel capitolo su Berlino saranno in molti a immedesimarsi (o rivivere) la condizione di expat, tra le sue mille contraddizioni, e i pensieri di Paolo spesso coincideranno con colui che raggiunge quel livello di apprendimento linguistico tale da non capire più dove finisce una e inizia l’altra lingua:

L’unica volta che prendo l’autobus è perché sono in ritardo, mi guardo attorno e leggo: Im Notfall die Scheibe einschlagen. Notfall è una parola che ti fa precipitare e Scheibe è una parola scivolosa, mentre einschlagen mi fa pensare alla panna montata perché montare la panna si dice schlagen, che però vuol dire anche picchiare e quando la leggo penso sempre alla panna e quando ci penso si crea una grossa macchia scura e sporca sulla parola.

Lingua Madre di Maddalena Fingerle è un libro consigliato in particolar modo a coloro che si trovano nella stessa condizione di espatriato (mentale e non) di Paolo, a coloro che si chiedono perché parliamo come parliamo, e soprattutto a tutti coloro che hanno a che fare con i misteri della lingua tedesca. È un’opera prima, a mio avviso, molto importante, che dimostra da un lato un’ottima qualità di scrittura e dall’altro uno spessore culturale non indifferente.

Giovanni Palilla

[1] Nietzsche, Friedrich [2015]. Su verità e menzogna in senso extramorale. Milano: Adelphi.

[2] Hofmannsthal, Hugo von [1995]. Lettera di Lord Chandos. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli.

[3] Bernhard, Thomas (1991). Il freddo. Una segregazione. Milano: Adelphi.

[4] Un quadro deformato che il lettore avrà modo di vedere in una scena di Perturbamento (edito Adelphi).

[5] Nella letteratura tedesca è presente un altro esempio di narratore che lamenta la lingua “sporcata” da qualcun altro, anche se le sue ragioni sono di ordine storico. Mi riferisco al narratore anonimo del romanzo Transit di Anna Seghers (in Italia edito dall’Orma editore): “Riga dopo riga sentivo come quella fosse la mia lingua, la mia lingua materna, e la bevevo come un neonato sugge il latte. Non gracchiava, non strideva come la lingua che usciva dalle gole dei nazisti in ordini di morte […].” 

Giovanni Palilla

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Giovanni Palilla

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