La donna alla finestra
Grandi aspettative
Come spesso accade, quando le aspettative sono troppe si finisce per rimanere delusi. Ma com’era possibile mantenere le aspettative basse con un progetto simile? Joe Wright alla regia, Amy Adams, Gary Oldman, Julianne Moore nel cast e un romanzo thriller di successo a cui attingere, a sua volta adattato da un premio Pulitzer. E come se non bastasse, Danny Elfman alla colonna sonora e Bruno Delbonnel alla fotografia. Quest’ultimo ha curato la fotografia de Il favoloso mondo di Amélie, di Harry Potter e il Principe mezzosangue e di diversi film dei fratelli Coen e Tim Burton. Fido collaboratore di Burton è il compositore Danny Elfman, che ci ha regalato colonne sonore indimenticabili (Edward mani di forbice, Nightmare before Christmas, Mission: impossible).
Passiamo a Joe Wright, che ci ha abituato a rischiose e riuscite trasposizioni letterarie di grandi classici come Orgoglio e pregiudizio e Anna Karanenina, ma anche successi letterari più recenti come Espiazione, per poi stupirci ed eccellere anche in altri generi: suo è l’ottimo thriller Hanna con un’instancabile e giovanissima Saoirse Ronan e una perfida Cate Blanchett, ma anche lo storico-bellico L’ora più buia, che permise a Gary Oldman di vincere l’Oscar nel 2018. Gary Oldman torna anche in questa pellicola, al fianco del premio Oscar Julianne Moore (con Still Alice, nel 2015) e Jennifer Jason Leigh (che l’Oscar lo sfiorò con The Hateful Eight, nel 2016). Ma la protagonista assoluta è la sempre brava Amy Adams, che l’Oscar l’ha sfiorato sei volte senza mai portarselo a casa (con Junebug, Il dubbio, The Fighter, The Master, American Hustle e Vice-L’uomo nell’ombra).
Il romanzo da cui Wright ha attinto è l’omonimo titolo di A.J. Finn, in Italia edito da Mondadori, ed è stato adattato per lo schermo da Tracy Letts che vinse il Premio Pulitzer nel 2008 per il dramma teatrale Agosto, foto di famiglia (August: Osage County), a sua volta trasposto al cinema nel 2013 con il titolo italiano I segreti di Osage County, acclamato dramma familiare con Meryl Streep e Julia Roberts.
Bene, a questi nomi aggiungiamo una trama che già sulla carta è un successo: una donna costretta a casa spia i vicini e assiste a un omicidio, ma nessuno le crede. In poche parole, un giallo che farà la gioia di cinefili e che accetta la sfida diretta con Hitchcock.
Sfortuna, innegabili difetti e qualche pregio
Tuttavia le cose iniziano ad andare male quando la Fox 2000 Pictures è stata sciolta e i suoi titoli acquistati dalla Disney, che giudica il film non adatto al suo pubblico. Dopo quasi un anno di trattative, ma anche di modifiche, il film è infine acquistato e distribuito da Netflix. Quindi, per questa volta, non possiamo attribuire a Netflix alcuna colpa…
Per Amy Adams è il suo secondo titolo Netflix e dopo le stroncature di Elegia Americana, difficilmente possiamo prevedere per lei una nomination ai prossimi Oscar per questo titolo. Insomma, Netlix sembra portarle un po’ sfortuna…
Non che non sia brava: il problema è di regia e di sceneggiatura, dove due talenti come Joe Wright e Tracy Letts si perdono in un gioco di accumuli, ridondanze, lungaggini, colpi di scena fuori tempo massimo e scene oniriche e metaforiche stucchevoli. Tracy Letts, grande drammaturgo che qui si ritaglia anche il ruolo d’attore (è il terapista) dà poi al film un impianto teatrale che amplifica inutilmente la già presente claustrofobia del film, ambientato quasi interamente in una casa. Se invece nelle scene collettive guarda a Carnage, come ci pare di capire, dobbiamo riconoscere che il risultato è assai diverso.
Riconosciamo invece allo scenografo Kevin Thompson, (con all’attivo titoli come Birdman o Guardiani della galassia) il merito di aver creato un’ambientazione suggestiva e affascinante, che si inserisce con eleganza nel filone delle case da cinema horror. Ma il merito più grande va al direttore della fotografia Bruno Delbonnel, che tinge gli ambienti e il volto della protagonista di luci ora torride e ora gelide, spesso innaturali ma di sicuro impatto e simbolismo.
Una trama già nota?
Torniamo dunque alla trama: in questa grande casa a più piani di Manhattan vive una donna sola, incapace di uscire di casa a causa dell’agorofobia. Non sappiamo da quando ne soffre: quel che è certo è che la sua patologia è la conseguenza di un trauma, probabilmente il recente divorzio, visto che ha una figlia e un marito che non vivono con lei e che quindi non può vedere. In cambio però a casa sua entra un sacco di gente: nel seminterrato vive un affittuario, che spesso sale al piano di sopra per darle una mano, il suo terapeuta le fa visita regolarmente, i vicini entrano a loro piacimento. E sono questi a sconvolgere la sua quotidianità: un adolescente visibilmente turbato e affetto di disturbi psichici, una donna verbosa che le dà fin troppa confidenza e un uomo burbero e fin troppo sospetto. Sono i membri della famiglia che si è appena trasferita nel palazzo di fronte. Una sera però, dalla sua finestra Anna vede chiaramente che la donna è pugnalata a morte. Chiama la polizia, ma nessuno le crede: come credere a una donna che passa le sue giornate a casa, al buio, a sgolarsi bottiglie di vino e ingoiare psicofarmaci?
E così vediamo per la maggior parte del tempo Amy Adams in vestaglia che ingoia una pasticca dopo l’altra, si trascina nella sua grande casa reggendo sempre in mano un bicchiere di vino, passa le notti a guardare classici in bianco nero e sussulta a ogni cigolio e rumore sospetto. E dopo un’evitabile scena catartica e onirica, arriva l’escalation horror fuori tempo massimo di un film che fino a quel momento era rimasto nei tranquilli e a volte noiosi meandri di un thriller psicologico.
Guardando a Hitchcock
È lontana la suspence dell’Hitchcock a cui il film si riferisce: la trama è infatti prende a piene mani da La finestra sul cortile, classico del 1954 con James Stewart e Grace Kelly dove un uomo è immobilizzato a casa e spia i vicini finché non crede di aver assistito a un omicidio…
Ma non solo: l’agorafobia di Anna non può non ricordarci le vertigini e l’acrofobia del protagonista di Vertigo – La donna che visse due volte, altro capolavoro hitchcockiano di con James Stewart protagonista e poi la stessa Anna guarda sullo schermo Io ti salverò, sempre di Hitchcock.
Tanti omaggi e rimandi per un film che ricalca la trama di uno dei più celebri titoli del regista inglese senza riusicire a riprodurne la suspence o le atmosfere.
E in un gioco di citazioni che sembra sempre più fine a sé stesso c’è pure il nome della donna che Anna crede assassinata, Jane Russell e quando la nostra protagonista la cerca (goffamente) in rete trova solo immagini della celebre diva degli anni Cinquanta. Una scena che dovrebbe forse divertire, ma che, insieme ad altre citazioni e rimandi, rimarrà probabilmente ermetica al vasto e giovane pubblico di Netflix.
Sei personaggi in cerca d’autore
Non ci rimangono che gli attori e anche qui rimaniamo delusi: Amy Adams è brava, come sempre, ma è intrappolata in un ruolo che non le rende giustizia e i suoi sguardi non bastano a trasmettere la tensione, l’inquietudine, la confusione, il terrore e nemmeno l’empatia che un ruolo del genere richiede.
La sfilata di comprimari è oltremodo deludente, in quanto i loro, più che ruoli, sembrano comparse “amichevoli”. A Gary Oldman, reduce dall’Oscar vinto proprio grazie a Joe Wright, è stato chiesto di apparire in un paio di scene, in cui, in penombra, sbraita contro la protagonista in un ruolo da cattivo privo di sfaccettature. Il dialogo tra Amy Adams e Julianne Moore è un’autentica gara di bravura, ma in un film del genere ( e di genere, oserei dire) risulta troppo giogionesco e fuori contesto, seppur originale e inaspettato. Mentre quella di Jennifer Jason Leigh è un’autentica comparsata. Più spazio hanno i meno noti Fred Hechinger e Wyatt Russell, rispettivamente nei panni del vicino adolescente (interpretazione troppo affettata) e dell’affittuario, il migliore del lotto. Appare anche Anthony Mackie, futuro Captain America.
In conclusione, quindi, non possiamo che dispiacerci di fronte a tanto potenziale sprecato e constatare che il film non è riuscito né come esercizio intellettuale né come opera di puro intrattenimento.