Crepuscolarismo e parodia in “La perdita e il perdono” di Roberto R. Corsi
La perdita e il perdono (uscito nel 2020 per Pietre Vive) è un libro miscellaneo, in cui Roberto R. Corsi accosta materiale inedito ad altro già diffuso. Parallelamente, testi più distesi seguono altri più fulminanti, componendo un quadro generale assai eterogeneo. Filo rosso la tendenza al comico e alla parodia, ora in maniera aspra e critica, ora in maniera più scanzonata, rivolti soprattutto verso il consesso letterario e la sua abitabilità.
Il risultato, dietro l’impatto delle boutade e della schiettezza, è la manifestazione di un io molto complesso, rimuginante, anche nevrotico, che si domanda senza fronzoli sul fare poesia oggi.
Parodia e ribaltamento
Parlare di “comico” in relazione a questo libro di Corsi, significa farlo anzitutto in senso dantesco. Corsi è comico, prima ancora che a livello di scena (buffa e/o dissacrante), a livello di lingua e idea di poesia. Ci troviamo infatti di fronte a un vocabolario inclusivo che pesca dai più diversi contesti, e soprattutto affianca – con effetto stridente – riferimenti alla cultura pop («Kim Basinger», «film Fargo») e termini quotidiani/volgari/gergali («grattarmi le palle», «bimbominkia», «quanno ce vo’ ce vo’») a lessico alto, scientifico («econazolo») o aulico («glaucopide», «ninfa silvana nel plenilunio»). L’effetto, nei casi più spinti, è quello di un continuo e incontrollabile sbalzo di registro («l’impiegata glaucopide col gloss / assentiva al suo boss», «Persino l’inclito Callimaco, renitente a usare i social network / è stato ostracizzato dai librai per fare spazio a qualche star mediatica»).
Oltre che alla tradizione comico-realistica, viene dunque spontaneo pensare a Gozzano e alla famosa rima «camicie»/«Nietzsche», dove il comico (la sovversione della gerarchia alto/basso) è generato proprio da una rispondenza fonica. Pur nella eterogeneità dei componimenti – quelli inediti, nella sezione che dà il titolo al libro, sono più densi e quasi sempre accompagnati da una data – anche Corsi è infatti molto attento alla costruzione del verso, che se visto al microscopio rivela spesso giochi di suono e costruzioni metriche studiati (Davide Castiglione ha parlato in proposito di «raffinata trasandatezza del verso lungo»[1]), impalcature fondamentali per i richiami “sovversivi” e derisorî.
Sul piano semantico – e ancora in stile Gozzano (quello, ad esempio, de L’esperimento) – il comico di Corsi si origina spesso dall’incontro/scontro tra illusione e realtà, che si scopre più modesta del previsto (come in Haiku e parafrasi, rifacimento squalificante di Ogiwara Seisensui). È del resto apertamente dichiarato che «la rottura della glassa poetica galante / è l’unico momento in cui si affaccia il vero»: in forza di una “ideologia della schiettezza”, Corsi si colloca forse nel punto d’incontro tra Cecco Angiolieri (che ribaltava gli stilnovisti, come in Il cuore in corpo mi sento tremare), camp e crepuscolarismo – tutte forme di parodia (παρα + ᾠδή) e costruzione del comico a partire da una dialettica col serio, che viene demistificato.
Vergogna della poesia
Il “crepuscolarismo” di Corsi – nel senso di un’ironia dimessa e citazionale – è del resto considerabile la matrice non solo della sua lingua, ma in generale della sua postura (che nella lingua, naturalmente, si manifesta e concreta). Intendo, cioè, che anche per Corsi si può forse parlare di “vergogna della poesia”, almeno nei termini di opposizione al poetese («galante») e alla sacralità del poeta (come Gozzano, del resto, «Corsi» si autonomina e dunque reifica).
Certo, parlare di sacralità del poeta nel 2021 suona anacronistico, e per inquadrare La perdita e il perdono occorre perciò misurare il suo “crepuscolarismo” con la realtà storica a cui costantemente rimanda. Vista così, la ratio metapoetica – evidente traino del libro – risulta infatti sovrapponibile a quella dell’«avvocato» Gozzano, del «saltimbanco» di Palazzeschi, del «fanciullo che piange» di Corazzini, e cioè coincide con un sentirsi postumi rispetto alla storia, rimasugli di poco valore. In tal senso, la stessa natura iper-citazionale dell’opera (teste le Note di clausura) si smaschera: non semplice virtuosismo allusivo, ma dialettica con un “già costruito” (ovvero la cultura, la storia). Una dialettica generale che ingloba quella più specifica tra serio e faceto, in cui, come visto, il secondo è ottenuto come rifacimento (abbassante) del primo.
Ma se Gozzano e soci si definiscono (come rimasugli) in opposizione al dannunzianesimo galoppante e retorico, in lotta con cosa, Corsi – o, almeno, la voce che dice io nella sua poesia – si squalifica? Ecco, il nodo del discorso è proprio questo: la querelle non è più tra estetica “alta” ed estetica “bassa” (codificate socialmente e retoricamente, come in D’Annunzio vs «guidogozzano»), bensì tra mondo (respingente) e comunità poetica (frammentata).
Storia e nevrosi
Questa vergogna, o, meno rigidamente, questo disagio, questa difficoltà di indossare la poesia, è infatti ciò che più apre spiragli sull’io che ci parla. Come ha giustamente sottolineato Lorenzo Bastida in un suo video[2], Corsi accoglie tanto elementi della commedia quanto elementi della tragedia. Ebbene, è proprio questa compresenza a svelare il conflitto interno all’io, un conflitto che deriva – ecco l’impronta metapoetica – dalla condizione storica di una società letteraria che (poiché virtualizzata, poiché caotica) non garantisce né solidità di fronte al mondo né una propria unità e realtà.
Mondo della poesia e mondo “reale” sono del resto contrapposti fin dal secondo testo («Guardi, qui / di poesia non c’intendiamo, né ce ne interessiamo, / abbiam da lavorare»), e l’insistenza di Corsi su motivi/eventi legati al primo mondo, dunque, è proprio un tentativo di circoscrivere quest’ultimo, riconoscerlo nella sua frantumazione. Partecipare alla “scena letteraria” significa perciò inseguire, semmai, una “messinscena” («Per essere creduto […] devi inscenare») che, in quanto tale, non forma una comunità vera e affidabile (De’ corsi affanni compenso avrai), e non è inoltre capace di validare il lavoro dei singoli («E noi che rilkianamente pensiamo / alla nostra poesia come ascesi, avremmo l’emozione / che quasi sgomenta, / di apparire su un blog letterario altolocato – proprio come / da sempre sognavamo – ma col verso circondato / da pubblicità di biscotti per cani, cotechini, zamponi»). Conseguenza, la frustrazione e il dubbio perpetuo sul valore della propria scrittura.
Il soggetto de La perdita e il perdono – si noti, anche nel titolo, una sfera di mancanza e una di restituzione – è insomma un soggetto doppiamente nevrotico: per via dello scontro tra società non letteraria e società letteraria («Nessuna musa ex machina a difesa») e, soprattutto, per via della ambiguità non rassicurante di quest’ultima. Verso di essa, l’io prova disprezzo e insieme desiderio, e deve barcamenarsi tra sforzi di individuazione o separazione autolegittimante («Gran parte dei poeti si rallegra […] mentre io…», «È questo il diagramma della vita, per i più. / Ma, se farai attenzione, ti sorprenderai / a fissare altre onde») e sforzi di comunicazione o empatia («E i miei versi ti dicono qualcosa […]?»). Entrambi – qui l’allegoria di un’impasse storico-sociale irrisolvibile – fallimentari.
Antonio Francesco Perozzi
[1] https://www.labalenabianca.com/2021/03/30/metapoesia-roberto-corsi/
[2] https://www.youtube.com/watch?v=Ohl_tMyE95A&t=221s