A Classic Horror Story. La premessa è nel titolo.
Della serie: quando il titolo dice già tutto. Ve lo diciamo tanto per rimanere in tema, per chiarire fin da subito come stanno le cose. Come fa A Classic Horror Story, che arriva a noi con questo nome che puzza di giustificazione: di chi vuole avvertirci che se ci mettiamo a vedere un film che è una tipica storia di paura, poi non è che possiamo lamentarci del giàfatto-giàvisto. Giusto? Insomma. Se dobbiamo essere sinceri fino in fondo, il titolo dice molto, ma non tutto. È la premessa, ma non la conclusione. Anche noi, le parole mica le usiamo a caso, e quel titolo sta vedere che non sia un po’ furbetto invece. Proveremo a dire di più senza dire molto, per quel rifiuto degli spoiler che ormai è la norma. Oppure no, non promettiamo niente: se continuate a leggere la responsabilità è vostra.
Un horror da manuale
Al principio furono cinque sconosciuti: l’autista di un camper e quattro ospiti dediti al car pooling. Tutti diretti verso gli abissi della Calabria, tutti per una precisa ragione e con una propria storia che prova a delinearsi prima che il mezzo si schianti. Il buio della sera, un cadavere animale sulla strada e uscire fuori dalla carreggiata è un attimo. Peccato che, quando i viaggiatori riprendono conoscenza, della suddetta strada non c’è più traccia. Solo una casa apparentemente disabitata davanti a loro e alberi tutt’intorno. Sentite l’eco di Non aprite quella porta, vero? Non è un caso. A Classic Horror Story ricalca intenzionalmente le orme dei padri, in una simil-scopiazzatura che è programmatica. Sono le orme del cinema anni ’70 e ’80, della new wave dell’horror che ha soppiantato quello classico degli anni Cinquanta nell’immaginario collettivo e si è imposto come il nuovo classico per eccellenza. Se percepite le atmosfere di Venerdì 13, L’ultima casa a sinistra e di tanta altra classicità, ebbene, è proprio lì che volevano portarvi.
Cinque piccoli indiani
La sciagurata gang non ha altra scelta che passare la notte all’addiaccio – o meglio nel camper, troppo disastrato per ripartire. Senza una tacchetta di linea sui cellulari. Senza qualcuno a cui appellarsi, in una radura tanto estesa quanto deserta. Senza altra scelta che vagare in tondo per poi tornare al punto di partenza (The Blair Witch Project, you know?). La nostra scream queen d’elezione – perché ogni horror che si rispetti ne ha una – designata già dai titoli di testa, si chiama Elisa. Al secolo Matilda Lutz, nei panni di una sconsolata che sta tornando a casa per abortire. Completano il gruppo un aspirante regista che sembra uscito da The Big Bang Theory, un medico burbero in attesa di ricongiungersi con la famiglia, e una coppia di amanti mezzi inglesi e mezzi non si sa bene cosa.
Quello che la comitiva rinviene nella casa, sempre quella apparentemente disabitata, rimanda a un rito pagano di antichissima data. Oggetto del culto sono tali Osso, Mastrosso e Carcagnosso, in origine tre cavalieri ispanici, che qui si vuole in grado di sfamare una popolazione afflitta da carestia, previa esecuzione di un sacrificio. Dopotutto, non chiedono altro che una lingua, due orecchie e un paio d’occhi: immaginate chi sono i fortunelli che dovranno sopperire a queste innocue richieste? Come in un Midsommar de’ noantri, un’intera comunità agricola e inquietante assiste complice alle esecuzioni di notte e banchetta di giorno, a testimoniare che, com’era prevedibile, i cinque malcapitati non erano del tutto soli.
Alle origini della criminalità (e un po’ di metacinema)
In realtà, A Classic Horror Story non inventa neanche questo: la leggenda dei tre cavalieri esiste da prima del film stesso ed è collegata alla nascita delle tre maggiori organizzazioni criminali in Italia. II mito della fondazione non è stato scelto a caso, così come non è un caso che di mafia e di ‘ndrangheta si parli anche altrove, e più esplicitamente, durante il film. Ancora prima che si squarci il velo e la realtà appaia per quella che è. Sì, perché a metà film la storia subisce una tale cesura che è possibile dividerlo in due. Una prima parte che si nutre coscientemente di un repertorio pronto all’uso, confezionato da decenni di cinema dell’orrore, e la seconda che riflette sulla struttura stessa del racconto horror e sulle sue probabilità di sopravvivenza nel contesto cinematografico italiano. Ed è un contesto ostile, il nostro, che fagocita il cinema di genere ma solo per sputarlo senza averlo digerito. Siamo di fronte a un film dentro il film, al cinema che ragiona su sé stesso – e qui non può che venirci in mente Scream, se sapete di cosa stiamo parlando. La conclusione cui giunge A Classic Horror Story è che l’horror ha chance pressoché nulle di farsi strada in Italia. Cioè in un paese in cui il pubblico è già drogato dalla violenza quotidiana delle narrazioni massmediali per stupirsi di fronte alla finzione, e troppo avvezzo alle mode americane per ammettere il talento dei nostri cineasti – e su questo, permetteteci di concordare, ché a volte sappiamo essere i peggiori detrattori di noi stessi.
Le ragioni di una classica storia dell’orrore
L’originalità, quindi, non è consentita: ecco il perché di A Classic Horror Story, ecco perché fare un film che segua il modello hollywoodiano – e che nel presupposto tentativo di calcare la via vecchia sa già dove trovare la nuova. Ecco perché Fabrizio, l’aspirante regista del gruppo che sa tutto di horror, ambisce a una messa in scena americaneggiante e ad ambientazioni di sicuro successo. Ed ecco perché, poi, i film sono due: quello che stiamo guardando e il film dentro il film.
La metanarrazione della seconda parte giustifica e rinnova di senso anche la precedente, che comunque era già godibile di per sé pure prima di sapere dove ci avrebbe portato (anzi, forse lo era anche di più). Non era allora una scopiazzatura – il camper che sbanda, il gruppo che si perde nei boschi, la casa abbandonata – non era un omaggio, ma quasi un allestimento, un preludio a una dichiarazione d’intenti. I due registi, Roberto De Feo, già autore di The Nest (Il Nido), e Paolo Strippoli sanno ciò che fanno.
Dalla metafora alla realtà
Quando Elisa soffia sul castello di carte, anche la mafia, la ‘ndrangheta, o insomma la criminalità organizzata muta di ruolo da una parte all’altra. Da che prima era allegoria si fa poi agente e movente, riempiendo la scena con una presenza inaspettatamente ingombrante. Quella bella chiave metaforica dell’inizio, dei tre cavalieri che vennero dalla Spagna – che poi è la forma propria dell’horror, quella di alludere a cose concrete e tangibili parlando di demoni assassini e sacrifici umani – cede il passo a una narrazione altrettanto cruenta ma con esiti meno squisitamente fantastici e che vorremmo meno didascalici. Questo, e una scena nei titoli di coda dal tono inutilmente moraleggiante, in un film che ci ha già fatto la predica seppur con le buone maniere, sono forse gli unici nei di una rappresentazione che gode comunque dei suoi buoni momenti. Visivamente parlando, soprattutto, il che, quando si guarda un film horror, è dire molto.
La scelta degli attori, per esempio, risulta particolarmente felice e si inserisce in un quadro di buoni propositi raggiunti. Non le solite facce, ma degli illustri sconosciuti di buon calibro. Matilda Lutz centra appieno il bersaglio, come final girl in odore di santità, che una mise-en-scène narrativa e figurativa fa di tutto per farcela sembrare come una neoMadonna. Nonostante alla fine imbracci l’arma e si faccia fautrice del suo stesso destino, e allora ci ritornano in mente tutti i revenge movie al femminile da Kill Bill al più recente Revenge, che ha per protagonista la stessa Lutz. La fotografia è completamente al servizio degli attori e della narrazione, e fa (bene) quello che dovrebbe fare: esalta, incornicia, comunica. La colonna sonora e la regia fanno il resto.
L’horror fatto bene, anche in Italia
Un po’ come quando la nostra rinviene all’interno del camper dopo l’incidente, e l’inquadratura la ritrae dapprima al rovescio per poi raddrizzarsi gradualmente con un mezzo giro. Gli aficionados dell’orrore ne avranno intuito la ragione. Se poi avete visto, poco prima, anche il segnale stradale capovolto, allora sarete andati in visibilio come un cinefilo che scorge un cameo di Hitchcock. Analogie e riferimenti si rincorrono e si abbracciano per tutto il film. Tipo quando Elisa, alla fine, riesce a fuggire e mette piede su una spiaggia affollata. Una delle prime cose che vediamo, sulla sabbia, è una radiolina, di quelle che probabilmente avrete avuto da bambini se avete tra i trenta e i quarant’anni. Siamo ancora vicini allo stereo a musicassette nella casa nel bosco che suona la musica di Gino Paoli e Sergio Endrigo. Ma pian piano che avanza, tutt’intorno diventano preponderanti i cellulari, degli astanti che li puntano su di lei ferita e sanguinante. Anziché soccorrerla, la immortalano in chissà quale diretta social. È un passaggio di tempo metaforico, dal vecchio (dello stereo e dei classici più famosi) al moderno, che simboleggia che ormai è fuori pericolo. Ciononostante è ancora sola: la gente la osserva tramite il display del cellulare, ma non si avvicina. A testimonianza che nell’horror i protagonisti sono sempre soli e per quanto possano urlare il mondo di fuori non li sentirà. E i due registi, di horror, se ne intendono.
Andrea Vitale