Avevamo lasciato Dominique Fortier sulla soglia della sua città di carta, fatta di pagine e versi di Emily Dickinson, esistenze e memorie sovrapposte, libri intesi come luoghi e la ritroviamo ora, ancora a rincorrere storie, a orientarsi nei tessuti della scrittura, tra le acque di Mont-Saint-Michel, l’isolotto tidale situato nella Francia settentrionale a inseguire un libro scritto «soprattutto per ritrovar[si]. Per ritrovare colei che sa scrivere dietro colei che è capace di consolare, cullare, allattare, coccolare, cantare, rassicurare, nutrire e accudire».
E tutt’intorno il mare (Alter Ego edizioni, traduzione di Camilla Diez) è il volume che raccoglie questa ricerca e, anzi, la stratifica nel tempo. Proprio come nel libro precedente Fortier dà un’importanza cruciale al luogo: il cronotopo letterario è, però, qui scisso e l’unità di spazio diventa il principale criterio narrativo. Tutto accade a Mont-Tomb, nell’abbazia dedicata all’arcangelo Michele fondata nel 708 d. C. dal vescovo Oberto, ma a diverse altezze cronologiche. Coesistono in questa storia tre momenti significativi: la fondazione dell’abbazia, la vicenda amorosa del pittore quattrocentesco Éloi e i conflitti di una donna (l’autrice, il suo alter ego) del XXI secolo che sta per diventare madre e si chiede come conciliare questo ruolo con la passione per la scrittura.
L’abbazia di Mont-Sant-Michel ha un valore simbolico forte e porta con sé in un’unica soluzione un senso di instabilità e di rassicurazione, poiché da un lato la sua collocazione geografica, in balia del mare, sembra tenerla in una condizione di totale pericolo – in origine era nominata appunto Mons Sancti Michaeli in pericolo mari – dall’altro l’edificio assurge a luogo di conservazione di testi manoscritti, custoditi nella biblioteca di quella che è conosciuta oggi come “città dei libri”. Un passo ulteriore quindi per la città di carta del libro precedente ma necessario per arrivare a una più salda conoscenza di sé.
Dei tre piani temporali, non a caso, quello dove è meno riposta l’indagine speculativa, lessicale, letteraria è proprio quello della scrittrice, che invece assorbe quanto accade nei secoli precedenti e ne fa lettura della sua esperienza. E questo meccanismo si palesa di continuo durante la narrazione. In momenti espliciti, come quando Fortier esprime la difficoltà di cancellare il presente per arrivare a una rappresentazione oggettiva del passato («Ho temuto a lungo di essere incapace di scrivere un libro ambientato in un’epoca in cui non si conosceva la patata. Non era metaforico; non intendevo un mondo in cui l’America ancora non esisteva, ma davvero un mondo in cui non avevamo mai assaggiato una patata»); quando il passato si relativizza e i testi di Tolomeo, Aristotele o altri saggi del passato diventano prima verità assoluta – fino a instillare il sospetto che le conoscenze del presente possano essere, se intuite in un certo periodo storico, leggenda o impostura – e dopo, una volta raggiunta la consapevolezza di quanto fossero in errore quelle idee, sapienza da mettere a margine, buttare («Ma allora a cosa serve questo libro […] se vi si trovano soltanto menzogne?»); oppure in maniera meno esplicita quando l’autrice, osservando i monaci, arriva alla conclusione che sotto la chierica e il saio quegli uomini sono tutti diversi e al contempo tutti uguali.
Un processo di stratificazione e di ricostruzione della storia che, visto da lontano, ricorda il meccanismo della riscrittura, del ritorno sulle idee, della rielaborazione dei concetti, del loro rinnovarsi ed evolversi. D’altronde la stessa abbazia di San Michele si trasforma nel tempo, l’architettura ne riscrive i connotati, le attività interne la modificano.
La storia – le storie, vere o di finzione – viene rappresentata da Fortier in questo libro come un processo di accumulazione: dal momento della creazione ogni cosa nel mondo è materia malleabile, da lavorare, modificabile (Adam in ebraico significa “argilla”, ci ricorda l’autrice, a proposito di creazione) e il risultato mai definitivo. Le stesse parole – nel libro c’è un’attenzione quasi maniacale al lessico e all’etimo – si riconfigurano: crois (‘credo’) e croix (‘croce’) si sovrappongono – ancora accumulo – e rafforzano il loro senso. Oppure se ne stanno lì (le parole) e si presentano all’occorenza, come fede, piove, libro, e diventano fatti, diventano mondo reale nel momento in cui le pronunciamo («Certo, il mondo è qui, le cose esistono, ma possiamo sempre cambiarle o farle sparire con uno schiocco di dita; dicendo non ti amo più. Oppure credo»).
E se non bastasse la parola per il processo di stratificazione storica ci sono le immagini del pittore del quattrocento Èloi capace di raccontare, a partire dalla scelta del colore, della luce o del punto di vista, sotto forma sempre diversa, la stessa persona, lo stesso ambiente e poi successivamente – anche perché disilluso da una delusione amorosa – tornare a cambiare quei racconti aggiungendo pennellate nuove, accumulando (ancora!), inserendo nuove tracce, ri-scrivendo quanto già esisteva.
In E tutt’intorno il mare ogni elemento muta quindi. Nel presente e nel passato. Mont-Saint-Michel – l’autrice lo conferma – non è altro che un palinsesto di pietra: uno spazio isolato costantemente raschiato e sostituito da qualcos’altro. Un luogo appartenente al mondo del reale e a quello dell’immaginazione insieme.
Un’isola, per Dominique Fortier, come la stanza desiderata un secolo prima da Virginia Woolf, dove potersi chiudere in sé per trovare, riconoscere, elaborare e strutturare il proprio spazio espressivo.
Antonio Esposito
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