Ricordo la prima volta che ho incontrato Stephen King. Erano i primi anni dell’università. Fu un’osservazione improvvisa, e d’un tratto mi trovai a pensare all’assurdità di un amante dell’horror che non lo avesse mai letto. Anzi, che non conoscesse affatto la letteratura dell’orrore. Ero un consumatore seriale di Piccoli brividi da bambino, poi per anni il vuoto. In casa avevamo Carrie, nella libreria del soggiorno. Sentii una certa propensione ad afferrarlo (sarebbe affascinante poter dire che mi abbia chiamato). Mia madre disse che era un libro spaventoso – lei che da piccoli impediva a me e mia sorella di guardare la notte horror su Italia 1. Sicché, capirete, fu soltanto un motivo in più per impadronirmene.
È successa poi una cosa strana, negli anni, a proposito di questa lettura. Col tempo, il ricordo di quell’esperienza mi è sembrato inattendibile. Ho cercato di intervenirci su, nel tentativo di renderlo più plausibile anche a un ipotetico interlocutore. Il punto è questo: sono quasi certo di averlo letto tutto in una notte. Ma non è possibile, vero, leggere un libro in una sola notte? Per pur esile che sia, è un viaggio incontenibile in un arco di ore così piccolo. Mi son convinto che dev’essere andata così: che ho consumato il grosso in una notte dopo averlo iniziato uno o due giorni prima. Eppure i conti non mi tornano.
Perché ricordo ancora quella notte. Era un sabato sera, allora avevo ancora l’abitudine di leggere prima di andare a dormire. Ma come potevo addormentarmi dopo aver visto cosa fecero a Carrie nelle docce? Ho detto ‘visto’, lo so. È che io ho assistito davvero. Ero lì quando è successo ed è stato terribile, perché non potevo farci niente per impedirlo. Avrei voluto consolarla dopo questo scandaloso episodio, e invece non ho potuto risparmiarle neanche l’altra umiliazione. Quella del conforto materno negato, dell’unico genitore che avrebbe potuto consolarla e medicare le sue ferite.
Trascorrevano le ore, e più mi dicevo di andare a dormire più non riuscivo a richiudere il libro. Mi spostai in cucina, ché mi pareva quasi inopportuno continuare a leggere a letto. D’altronde non sarebbe servito: ormai c’ero dentro e non potevo chiudere gli occhi. Ero come uno spettatore privilegiato di uno spettacolo su cui non potevo far calare il sipario. È incredibile quanto una routine mediatica improntata alle tragedie dal vivo ci abbia reso indifferenti alla violenza reale – mangiamo comodamente davanti alla tv indignandoci appena un attimo tra un boccone e l’altro. È questione di assuefazione e di sopravvivenza. Eppure di fronte a una vicenda di finzione non riuscivo a soprassedere. Carrie per me era reale e viveva dell’agitazione che provavo dentro. Guardavo l’orologio al muro della cucina e non potevo farci niente: le lancette si muovevano ma io dovevo sapere cos’altro ancora sarebbe successo.
Arrivò il punto in cui mi rassegnai, in cui mi dissi che l’alba era vicina e dopotutto c’era una domenica davanti. Erano gli ultimi istanti della notte e le ultime ore di Carrie. Quelle del ballo studentesco che molti di noi, i superstiti alla festa, gli abitanti della città, io stesso, non avremmo dimenticato. Ho visto due film su questo romanzo, ma nessuno è stato all’altezza di quel che ho vissuto io. Neppure il seppur pregevole cult di Brian De Palma. Nessuno mi ha restituito l’angoscia, l’afflizione, la sensazione di non poter più pensare ad altro mentre un dramma del genere aveva luogo da qualche altra parte, nella mia testa, in quelle pagine.
Ho visto Carrie prodursi in efferatezze che vorrei non avesse compiuto e da cui ciononostante son riuscito ad assolverla. Credo che sia un dono dei grandi romanzi, quello di farti stare comunque dalla parte del protagonista, buono o cattivo che sia. Non ho potuto fare a meno di pensare che se lo siano meritato, Chris, Billy, le ragazze della scuola, un po’ persino Tommy. E la madre, poi! Come si può trattare da mostro una bambina e poi pretendere che sia lei a pagare se si comporta come tale?
Quando si fece giorno avevo ormai finito. Carrie non c’era più, ma non sarebbe stato possibile, per i suoi concittadini, cancellare le tracce del suo passaggio. Come nel film di De Palma, avremmo tutti avuto gli incubi ancora per un po’. È difficile immaginare che Sue ne sarebbe potuta uscire presto. Non ho mai più letto niente di Stephen King, se non di nuovo Carrie. Credo sia stato per la curiosità di scoprire se avrei provato di nuovo le stesse cose, più che per la volontà di rispolverare qualche ricordo. La storia, anzi, ce l’ho ancora ben nitida dentro di me. Anch’io sono stato a Chamberlain, nel Maine, e non ne sono più uscito.
Andrea Vitale
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