Sono cresciuto con l’idea che solo i perdenti, gli scansafatiche e gli infelici non se ne andavano di lì, persone che si confondevano con il paesaggio, i lampioni con le sfere di vetro rotte, le porte arrugginite del campo Arregaça, i muri luridi, le panchine spaccate dei parchi. [. . .] Partii per il mondo certo della vittoria e feci ritorno, a capo chino, con il fardello del mio fallimento.
Si apre così l’esordio dell’autore portoghese Bruno Vieira Amaral (classe ‛78) Le cose di prima, romanzo tradotto da Giorgio De Marchis e portato in Italia da Nutrimenti, casa editrice che sta facendo un lavoro di ricerca decisamente notevole. Quest’opera prima è valsa ad Amaral numerosi premi tra cui il premio José Saramago e il Pen Clube Português de Narrativa. Una pletora di riconoscimenti letterari che alza l’asticella delle aspettative, e dà la cifra di quella che promette essere una lettura di valore.
Aspettative che non vengono disattese. Amaral riesce a costruire un romanzo atipico, avvolgente e commovente, di quelle letture che danno voce agli ultimi, ai dimenticati e perciò risultano più difficili da metabolizzare. Perché quella del Quartiere Amélia è una storia di vite masticate, consumate dalla povertà e da politiche indifferenti al malessere degli abitanti di quello che è, a tutti gli effetti, un Portogallo inedito.
L’autore ha plasmato il sobborgo a partire dal luogo nel quale è nato e cresciuto. Il sapore agrodolce è quello di vite cristallizzate in un contesto sociale, economico, umano che si oppone al cambiamento. L’incipit, scritto con sincerità violenta, immerge il lettore in un universo di disagio esistenziale che pone questioni etiche e morali profonde e di difficile risoluzione.
Avete presente il comportamento elastico nei materiali? Ecco, il Quartiere Amélia si oppone alla deformazione continua, ai lievi tentativi di ammodernamento e progresso. Il quartiere è vivo, ha un’anima pulsante; è come un animale in gabbia che si adatta al nuovo habitat, ma brama il ritorno alla libertà, allo stato naturale delle cose. Senza interferenze, senza rivoluzioni.
Ho visto la gente arrivare piena di sogni e scappare cacciata via. [. . .] Amico mio, ho visto gente mandare a puttane la propria vita in tutti i modi che riesci a immaginare. Tutti. C’è stato chi è uscito da qui e si è sistemato, ma li hai guardati bene in faccia quando tornano qui, nel quartiere? No? Allora te lo spiego. Arrivano con un luccichio negli occhi che non so se sia nostalgia o carenza di memoria. Parlano con tutti quelli che incontrano. [. . .] Abbracci, lacrime, storie, risate. È il terzo giorno che la merda si presenta, come un cesso intasato, merda da tutte le parti. Incontrati tutti, rivissute tutte le storie, riso su quanto c’era da ridere. Il terzo giorno, il tizio che ha fatto fortuna lontano dal quartiere comincia a guardare gli amici di trent’anni prima e li vede per quello che sono: carcasse umane, fantasmi infelici.
Emerge un luogo, con tutti i tipi umani che lo abitano, le loro contraddizioni e debolezze, i loro sogni. Emerge un luogo violento, brutale e per nulla accogliente; un luogo descritto con un linguaggio a tratti volgare, esasperato. Una periferia che potrebbe essere quella di qualsiasi città abbarbicata sulle speranze di chi la abita.
Il materiale narrativo, che è organizzato in capitoletti brevi ordinati in successione alfabetica, si concentra su persone specifiche o eventi che si prospettano rivoluzionari per il micromondo Quartiere Amélia.
Un esempio sono le pagine dedicate alla grande tinteggiatura del 1990, quella che ha ringiovanito il luogo, seppur temporaneamente. Pochi mesi dopo, infatti, è ripiombato nello «sconforto, l’umidità attenuò il biancore delle pareti, i colori sgargianti impallidirono» e gli abitanti rimasero «soli, i soliti di sempre».
Con passaggi taglienti e una struttura solida di chi scrive con passione e dà voce la proprio vissuto, Amaral regala uno spaccato di vita universale. Ritroviamo la signora che prepara frittelle, la vecchia che annusa bagnoschiuma al minimarket, omicidi, sparizioni, esperienze ed esistenze in cui ripescare pezzetti del nostro passato.
Non so se leggere Le cose di prima da espatriata, con le speranze stropicciate nello zainetto, mi abbia aiutata a calarmi meglio nella narrazione, ma riconoscermi e famigliarizzare con alcune dinamiche è stato di certo un plus.
Quando cresci pensando che andar via sia l’antidoto a un malessere viscerale e diffuso, racconti in cui si intrecciano infanzia e maturità, passato e presente, speranze e delusioni portano all’autoanalisi, al confronto con i propri fantasmi e le proprie scelte.
Chissà se fra un po’ potremo vederci, magari guardare a questo periodo con bonarietà, come uno iato una tempesta passeggera.
Nicole Zoi Gatto
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