«A chi vorrà leggerla dico questo: non credete a questa storia, è simbolica, farneticante, totalmente esagerata. Qui, un fiocco di neve si trasformerà subito in una calotta polare e un decennio passerà in un battito di ciglia. Cercate al suo interno, invece, le tracce di una storia comune, che non distingue tra passato e futuro, una storia che ogni volta si distrugge per poi riaccadere di nuovo. Una costruzione infinita, a cui tutti partecipano eternamente, senza scampo. Una storia folle. Un sogno sublime».
Con queste parole in prologo, affidate a Andrej Nikto, Gianluca Di Dio apre il suo La Sublime Costruzione (Voland), cioè con una dichiarazione di poetica. Fin dalle prime righe si palesano le intenzioni del romanzo: inquadrare – o quantomeno tentare di farlo – quel meccanismo che segna il ripetersi delle esistenze e il loro senso comune; in altre parole – ancora – un tentativo di approdare a una definizione del senso della vita.
Andrej Nikto è un profugo di guerra, la sua città e stata distrutta e nulla resta del suo mondo. L’uomo si ritrova a vagare per una terra fredda e desolata dove l’unica via di fuga, almeno l’unica che sembra immediata, è partecipare ai lavori della Sublime costruzione, una struttura di cui non si conosce il fine ultimo ma la cui realizzazione può impegnare centinaia di uomini promettendo loro lavoro e benessere.
L’unico modo per raggiungere la Sublime costruzione è passare per una corriera in cui si trovano strani figuri che hanno ruolo di reclutatori e l’intero percorso verso il cantiere risulta disseminato di insidie. In particolare Andrej, accompagnato dall’inseparabile amico, Årvo, si ritrova ad affrontare in questo viaggio cinque tappe simboliche, cinque falsi approdi che richiamano l’omerico viaggio di Ulisse e legati ad altrettanti momenti della storia recente utili a proporre una nuova epica del contemporanea; a tratti distopica, anche per il paesaggio postapocalittico che anima le pagine del romanzo.
In un suo intervento Alain Robbe-Grillet dichiarò, cito a memoria, che tutto sommato nei secoli la letteratura si è limitata a raccontare solo due storie, le due sole possibili, le cui matrici sono da individuare nei capolavori omerici. Da un lato la storia di un popolo che attraversa i conflitti che segnano la propria epoca; dall’altra quella di un solo uomo che, tramite il superamento di peripezie, arriva all’affermazione/definizione di sé. L’archetipo omerico ha insomma ridefinito la letteratura mondiale, al punto che non sarebbe assurdo pensare – come una volta invece dichiarò Italo Calvino – che sarebbe giusto porre le opere del poeta greco all’origine della storia di qualsiasi letteratura del mondo.
E questo per dire che se l’impresa di Gianluca Di Dio con La Sublime Costruzione possa apparire ardua o ambiziosa (si pensi che il percorso di riscrittura della vicenda odissea è passata nel secolo scorso per penne come quelle di Joyce o Kazantzakis) per certi versi, dall’altro determina fortemente l’appartenenza dell’autore a una tradizione letteraria che cerca, seppure attraverso i codici del moderno, a raccontare l’uomo – e le vicende umane, di conseguenza – attraverso quei topoi che sono ben radicati nell’immaginario collettivo e meglio si prestano a suggerire immagini vivide a fronte dei temi presi in analisi da chi scrive.
«Forse non saprò spiegarle chi siamo per davvero, né descriverle la mente o il luogo in cui abbiamo preso forma, forse riuscirò solo a dirle che tutto è un’unica e insondabile illusione, ma so per certo quale compito ci aspetta: fino all’ultimo dovremo apparecchiarci a un interminabile cammino di speranze».
D’altronde il modello omerico ne La Sublime Costruzione, poi, non può che arrivare a quanto riportato nella citazione: a un cammino di speranza. Cioè alla definizione di un percorso esistenziale che trova la sua logica, o meglio il suo senso, nel continuo lavorio verso qualcosa che ha da venire e che può diventare serenità, appagamento, felicità addirittura, solo se coltivato entro i limiti della speranza.
Antonio Esposito
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