“Parlare di precipizio equivale a cadere due volte”: Due tempi di Nunzio Bellassai.
S’intitola Due tempi, l’antologia poetica di debutto di Nunzio Bellassai. Come sempre accade, nessuno arriva a pubblicare una raccolta di poesie dal nulla: prima del debutto ufficiale c’è sempre un apprendistato silenzioso, un rodaggio formativo fatto di piccoli esordi, apparizioni isolate e lampi di parole che affiorano qua e là. Quelli di Nunzio Bellassai, siracusano, appartenente alla generazione Z, sono stati alcuni racconti – pubblicati – e poesie, pubblicate anche queste, sulle pagine de La Repubblica o del Corriere della Sera, sotto lo sguardo vigile di Maurizio Cucchi. È il poeta milanese, infatti, che ne ha curato la prefazione, di questa raccolta edita da Ensemble che è in due atti brevi, una narrazione unica in (appunto) due tempi, tra loro simili, coerenti, nostalgici e pensierosi.
Nel tempo della paura mi sembra incessante / il battito violento del mondo
Parte prima: Linea obliqua
Dunque, due atti si diceva, Linea obliqua il primo e Il bambino il secondo. Simili tra loro perché attraversati dallo stesso spirito, coerenti nel tono e nello stile. I temi – e alcune parole leitmotiv – si rincorrono da una parte all’altra. Risuonano, a ricordare ossessivamente la sostanza di cui è fatta la raccolta. Ma se dovessimo isolare uno e un solo elemento della prima parte, ebbene la città ne sarebbe la grande protagonista. La città di Due tempi è testimone di grandi rovine dell’età attuale e contemporanea, su tutte la guerra e la pandemia da COVID-19. Benché queste non siano mai apertamente nominate, i riferimenti sono sufficientemente limpidi – per non parlare del fatto che, talvolta, basta citare la città stessa perché un intero repertorio di immagini venga alla mente.
È il caso di Černobyl, il cui fugace ritratto condensa in pochi versi un centro urbano che non è più, un non-luogo che «respira si alimenta, eppure non esiste», o di Beirut, che risuona di «singulti incastrati tra / le macerie». L’ispirazione di questi scorci è tanto patente che non c’è bisogno di spiegarla, certamente perché risiede in fatti già saturi di memoria televisiva e consegnati alla Storia mondiale.
Milano, invece, è eletta a esponente nazionale della triste epidemia, là dove il Campo 87 citato in una delle liriche è la sezione del Cimitero Maggiore che ospita le salme delle vittime della prima ondata. Anche altrove compaiono altre rime che vivono del passato più recente, non solo nazionale, e concorrono a restituire la stessa immagine globale della città; i grandi centri abitati, in Due tempi, non fanno che dirci che questo è riservato alla città, di essere desolata e cadaverica.
Viene da chiedersi – unico indiziario – / cosa ci fosse prima del pallore / delle seicento croci comunali.
Una voce desolata
Lascia sorpresi che un ragazzo di venti anni si soffermi sul disastro di Černobyl o sul numero delle vittime di un’epidemia, più di quanto non faccia con l’agitazione interiore tipica di quegli anni. Anzi, il suo tormento viene proprio dal mondo che osserva, nei confronti del quale può essere assai meno di un agente e poco più che uno spettatore. È un mondo che il giovane Nunzio, interprete dei suoi anni, riceve in eredità senza averlo potuto plasmare né averlo voluto, con tutto lo sconforto di chi al momento può “soltanto” far sentire la sua voce.
Città e natura si alternano e si affrontano per tutta la raccolta. La prima, luttuosa, silenziosa, del silenzio che i riti funebri portano con sé. È la città del post-tragedia, fatta di “palazzine costipate da presenze taciturne”, dove gli unici suoni che si riescano a percepire sono quelli degli “ingorghi di auto in fuga”. L’agglomerato urbano sembra non poter vivere che di “rumori passati”, destinato a un futuro funereo e spaventoso. L’alterazione, il movimento sono invece prerogativa della natura, ma è un cambiamento che non suggerisce nulla di buono.
Parte seconda: Il bambino
Già presente anche nella prima parte, è nella seconda che la natura conquista un ruolo preminente. Se la città si è già svuotata, è già avviata verso la sua fine, la natura invece è nel pieno della sua metamorfosi, e tuttavia anch’essa di uguale e costante segno negativo. Siamo di fronte a detriti trasportati da corsi d’acqua in esaurimento, rocce erose, sabbia e rami rinsecchiti. E, soprattutto, la spiaggia. L’eco del mare è onnipresente, sicuro retaggio di quella Siracusa che a Nunzio Bellassai ha dato i natali. In qualche luogo compare anche l’isola (che sia la Sicilia?), a cui l’autore farebbe ritorno. È un viaggio mentale ancor prima che concreto, un ritorno interiore che tuttavia non ha la serenità che ci si attenderebbe. Il bambino della seconda parte non riesce a trovare conforto nelle spiagge abbandonate, nei rintocchi che nessuno ascolta.
Emergono indecifrabili ricordi personali, in queste poche figure umane che s’affacciano qua e là in indistinti ambienti casalinghi: una stanza bianca, una cucina vuota, che però non hanno niente della confortevolezza della casa. Da una parte un vecchio, da un’altra una mano raggrinzita, sono tutti elementi che si uniscono alle immagini di corpi e oggetti in decomposizione o già decomposti. Pare che la giovinezza – e con lei la vita – abbia abbandonato il mondo. Eppure negli occhi di chi guarda riesce ancora a farsi strada qualcos’altro, che veda oltre la decadenza della materia, vitale e inanimata: ed è, forse, la speranza.
Andrea Vitale