La casa di carta, Squid Game e gli altri: la serialità senza confini di Netflix
Sessantanove milioni: sono gli spettatori, in cifre, che hanno visto l’ultima stagione de La casa di carta nelle prime quattro settimane dal suo debutto. E questo soltanto per quanto riguarda il volume 1 di questa quinta parte, vale a dire i primi cinque episodi resi disponibili il 3 settembre. C’è da credere che, se possibile, questi numeri siano aumentati ancora all’uscita del volume 2 a inizio dicembre: considerate, infatti, che nello stesso periodo dello scorso anno la quarta parte era stata vista da sessantacinque milioni di spettatori. Si tratta di cifre straordinarie per qualunque show televisivo, ma non insolite: serie tv altrettanto (e forse più) popolari hanno racimolato un pubblico ancora più consistente in tempi non sospetti. Pensate a The Big Bang Theory, Grey’s Anatomy e Criminal Minds. La novità straordinaria, in questo caso, sta nel fatto che La casa di carta proviene da tutt’altro contesto produttivo: ovvero, dal di fuori degli Stati Uniti.
Il dominio della serialità americana
Il pubblico italiano lo sa bene: le serie che i nostri palinsesti hanno ospitato negli anni sono sempre state targate made in USA, con le poche eccezioni che rappresentano Il commissario Rex o Paso adelante. In Italia abbiamo la fiction, diversa già in termini e per linguaggi dalla serialità americana, sebbene nell’ultimo quindicennio si sia appropriata dei meccanismi narrativi seriali meno obsoleti. Ma che gli italiani guardino la televisione prodotta nel nostro paese è un fatto normale, da un punto di vista storico, culturale, economico e sociale. Per ragioni pressappoco analoghe, il pubblico italiano è ormai avvezzo a vedere entrare nelle proprie case prodotti di matrice anglosassone. Questo perché gli Stati Uniti sono sempre stati leader nel settore dell’entertainment, nella misura in cui le loro fabbriche di cinema, teatro, musica e tv riescono a esportare in ogni angolo del globo. Le serie tv americane sono rapidamente diventate le serie per eccellenza in tutto il mondo: ricordate il caso di Baywatch, che all’apice del successo contava un miliardo di telespettatori sparsi in 142 paesi?
Nuove frontiere nazionali
Quello che sorprende oggi è che tra i titoli più visti di questi ultimi mesi figuri più di una produzione non americana: dagli spagnoli Élite o La casa di carta ai francesi Lupin o Chiami il mio agente!, alla tedesca Dark, all’israeliana Fauda e la sudcoreana Squid Game, queste serie hanno tutte un comune denominatore, ed è Netflix. Che ne sia direttamente produttore o soltanto distributore, il grande colosso di streaming on demand è fautore di una delle più notevoli mutazioni televisive cui possiamo assistere. Non è un caso che essa sia opera proprio di un broadcaster americano, cioè di una società proveniente da quel paese che da oltre un secolo detta legge nell’intrattenimento audiovisivo. Probabilmente, però, neanche Netflix si aspettava dei risultati di questo tipo.
Netflix e l’espansione del mercato
All’inizio, l’obiettivo di Netflix era quello di colonizzare nuovi mercati geolocalizzando la propria produzione. Vale a dire, creare dei prodotti ad hoc per il pubblico dei paesi in cui pian piano si espandeva: serie in francese per i francesi, tedesche per la Germania, e così via. È ovvio che qualcuno ai vertici avesse già intuito il potenziale della Casa di carta o di Chiami il mio agente!, ma lo scopo primario dell’operazione restava quello di conquistare nuovi abbonati, non di infrangere le barriere culturali tra un continente e l’altro. A dimostrazione di quanto stiamo dicendo, basti pensare che quando Netflix ha reso disponibile Squid Game sulla propria piattaforma non aveva ancora provveduto al doppiaggio in italiano: il successo globale della serie ha superato le previsioni del network, col risultato che migliaia di spettatori hanno fruito della serie in lingua originale. Quanto spesso noi spettatori guardiamo una serie (o un film) sottotitolato? E quanti di noi prima non sapevano neanche quale suono avesse la parlata sudcoreana?
Siamo di fronte a un cambiamento imponente, del tutto nuovo per i nostri tempi, che trova un lontano antecedente soltanto nel caso di Parasite: nel 2020, il film sudcoreano è stato il primo film non in lingua inglese ad aggiudicarsi l’Oscar più prestigioso. E se vi sembra che la consacrazione di Chloé Zhao e del cast di Minari, l’anno dopo, abbiano a che fare con le stesse dinamiche, ebbene, sappiate che è invece qualcosa di completamente diverso. La regista cinese naturalizzata statunitense, per esempio, ha ottenuto la statuetta con un film in lingua inglese e distribuito da una major. Associare la sua vittoria con l’apertura del mercato globale verso prodotti di matrice non americana significherebbe confondere la persona col prodotto, e ignorare le origini di una trasformazione di cui siamo noi stessi gli artefici. Una innovazione che proviene dal basso, dalle fondamenta, per arrivare ai piani alti, e non viceversa. Il grande successo di Squid Game, La casa di carta e gli altri è stato dettato più dal passaparola che dall’abilità della critica di influenzare le nostre scelte. Non ha niente a che fare con la capacità di una istituzione di orientare le nostre visioni, ma con la nostra decisione di schiacciare un tasto sul telecomando. Noi non abbiamo nessuna responsabilità nell’assegnazione del primo Oscar a un’attrice sudcoreana, ma è probabile che la candidatura di una serie come Squid Game ai Golden Globe di quest’anno dipenda invece da noi.
Casi isolati o diffusione sistemica?
Vero è che quelle cui si fa riferimento, le serie riportate da Netflix ai vertici della propria piattaforma, sono dei fenomeni. Parliamo di titoli da grandi numeri, da milioni di visualizzazioni, e perciò quasi unici nel loro genere. Sono serie con un successo di pubblico e di critica riservato finora soltanto alla grande serialità americana; eppure, è difficile pensare che possano contrastarne l’indiscusso, decennale dominio. Ma se è altrettanto vero che non si può (ancora) parlare di una vera e propria esportazione della serialità asiatica al di fuori della sua terra natia, qualcosa comincia a smuoversi per le produzioni europee. L’exploit de La casa di carta ha trascinato dietro di sé altre serie spagnole, a volte persino antecedenti, portandole all’attenzione di un pubblico straniero: Vis a Vis, Toy Boy, Élite, Le ragazze del centralino forse sarebbero niente più che sconosciuti se prima non avessimo incontrato i ladri dal volto mascherato.
Va da sé, inoltre, che Francia e Spagna sono due paesi con una tradizione televisiva e cinematografica consolidata e, per quanto riguarda la seconda, già famosa anche all’estero, nel mondo occidentale, dai primordi della settima arte. L’apparato produttivo nazionale era probabilmente già maturo, bisognava solo che Netflix facesse il resto. Da parte nostra, invece, eravamo mentalmente e culturalmente predisposti – leggi “educati” – ad accogliere la serialità che hanno da offrire. L’inserimento di Netflix nei mercati locali, infatti, non garantisce inevitabilmente un futuro successo dei titoli esportati. Prendete Sexify, per esempio, proveniente dalla pur vicina Polonia eppure esclusa dal girone della popolarità nonostante l’intrigante premessa. Quel che possiamo constatare è che siamo ancora nel mezzo di questa innovazione e non sappiamo dire dove ci porterà. All’affermazione di un nuovo tipo di serialità non americana? Probabile. O magari, tra qualche anno, ricorderemo questo momento come un breve vacillamento dello status quo. Ma se di rivoluzione si tratta, allora è qui che è cominciata.
Andrea Vitale