L’inquietante universo di Shirley Jackson
Stephen King nel suo saggio intitolato Dans macabre (arrivato in Italia grazie a Theoria nel 1992, vale a dire dieci anni dopo la pubblicazione in lingua inglese) ha definito una delle sue opere come “forse il migliore tra i grandi romanzi del soprannaturale dell’ultimo secolo” e da allora è ricominciata la riscoperta di un’autrice poco nota al di fuori degli Stati Uniti. Sto parlando di Shirley Jackson, di cui solo due titoli erano stati tradotti in Italia prima di quel saggio di King. Adelphi ha poi preso messo mano all’opera della Jackson e ha cominciato a riproporla dal 2004 con L’incubo di Hill House (prima conosciuta da noi come La casa degli invasati), a cui sono seguiti Abbiamo sempre vissuto nel castello (già proposto da Mondadori nel 1990 con una traduzione del titolo molto più libera: Così dolce, così innocente), la raccolta La lotteria, Lizzie e per ultimo La meridiana, fresco di stampa. Originariamente erano stati tutti pubblicati in America a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Chi era Shirley Jackson
Parliamo dunque dell’autrice (1916-1965), che dobbiamo immaginarci come la classica casalinga disperata dei sobborghi statunitensi, vestita con abiti color pastello e sempre alle prese con torte, giardini, aspirapolveri e bambini. Nel mezzo questa donna normale e straordinaria trovava tempo per scrivere e nella scrittura sfogava ossessioni e paure insospettabili. Ma non voglio spingermi oltre, perché in tanti hanno cercato di analizzare l’opera letteraria attraverso la biografia.
Qui invece voglio che sia la sua opera a parlare e allora cominciamo dal suo primo successo, un brevissimo racconto intitolato La lotteria, divenuto anche un dramma radiofonico di grande successo (ricordate l’episodio de La guerra dei mondi di Orson Welles? Beh, qui non siamo a questi livelli, ma le reazioni furono molto accese). Da bambino ne vidi un adattamento televisivo della NBC con protagonista Keri Russel (sì, quella di The Americans e Felicity) e rimasi turbato dalla trama, che però non potrei riassumere senza svelare il finale. Vi dirò solo che l’ambientazione è quella, appunto, del classico sobborgo statunitense, tutto casa e chiesa.
E troviamo così il primo tratto distintivo delle opere della Jackson: l’epilogo è la parte cruciale, è ciò che definisce anche il genere di questi scritti eppure non lo si può rivelare altrimenti guasteremmo la sorpresa al lettore; insomma un bel problema per gli editori.
L’incubo di Hill House
Il secondo elemento caratterizzante è la scrittura elegante e trattenuta, dove il terrore è soltanto suggerito, evocato, mimetizzato, spesso sul punto di esplodere ma mai mostrato o gridato a gran voce, ragione per cui si presta molto bene ad adattamenti audiovisivi che però non sono quasi mai stati all’altezza, a parte un unico, celebre e recentissimo caso: quello de L’incubo di Hill House. Tutti ne abbiamo sentito parlare e molti lo abbiamo visto: si tratta dell’adattamento a episodi rilasciato da Netflix nel 2018, ben presto diventato un vero e proprio caso, sia per il numero di visualizzazioni, sia per gli elogi di critica e spettatori. Eppure la serie di Mike Flanagan, un riuscitissimo misto di horror e dramma, dal breve romanzo della Jackson non prende che i nomi e alcuni elementi della trama. Se volete qualcosa di leggermente più fedele allora ripescate il film anni ’90 The Haunting-Presenze, con Catherine Zeta-Jones, Owen Wilson e Liam Neeson: decisamente non molto riuscito ma passato un sacco di volte in TV.
Se invece siete rimasti colpiti dalla serie tv, sappiate che nel romanzo non troverete nulla di tanto spaventoso, drammatico o commovente: la scrittura asciutta della Jackson è per vocazione contraria alle grandi emozioni e i suoi epiloghi sembrano concepiti per dividere il pubblico. Ma gli incipit, quelli mettono tutti d’accordo nel gridare al capolavoro.
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline (…)».
L’ammirazione di Stephen King
Così esordisce il romanzo definito da Stephen King “forse il migliore tra i grandi romanzi del soprannaturale dell’ultimo secolo”, una definizione che contiene uno spoiler di non poco conto, perché in realtà la narratrice ci mette in guardia fin da subito: quello che leggeremo sarà il racconto di una mente alterata e non sarà facile distinguere la realtà. Se poi ciò che vedremo sono allucinazioni, fantasmi, sogni, lo scopriremo, forse, solo leggendo e giungendo al frettoloso e deludente epilogo.
E qui occorre aggiungere il terzo elemento che accomuna gli scritti della Jackson: i finali prendono alla sprovvista il lettore, sconvolgendolo, irritandolo e a volte, va detto, deludendolo. Gli epiloghi di questa autrice sono la parte più forte o debole dei suoi scritti, a seconda dei casi e dei vostri gusti. Tanto è sconvolgende e straordinario l’epilogo de La lotteria, che Adelphi ha pubblicato insieme ad altri tre cortissimi e cupi racconti, tanto ci lascia l’amaro in bocca quella de L’incubo di Hill House. E poi arriva Abbiamo sempre vissuto nel castello, protagonista a sua volta di un recentissimo adattamento, disponibile su Amazon: Mistero al castello Blackwood, film del 2018 prodotto da Michael Douglas e interpretato dall’ormai scream queen Taissa Farmiga (American Horror Story, Scream Queens, The Nun) e Alexandra Daddario (True Detective). La casa isolata, una famiglia alienata, un passato terribile che nasconde un mistero e una narratrice irresistibile:
Uno stile tutto suo
«Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e vivo con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascare lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare».
Un romanzo sussurrato, delicato, perfino gioioso, su cui incombe uno spaventoso mistero: sarà una storia di paura? Per saperlo bisogna leggerlo, non si può dire altrimenti e qui sta la grandezza di Shirley Jackson: i suoi scritti spiazzano, a volte suscitano reazioni negative, ma non lasciano indifferenti. Hanno molto in comune con i classici del romanzo gotico, Il giro di vite in primis, eppure se ne discostano totalmente e vanno per la loro strada, per mischiare quotidiano e straordinario e trasportarci in universi che appaiono così vicini, tranquilli, perfino familiari, ma poi con poche parole le nostre certezze vengono ribaltate. Non resta dunque che leggerli ed entrare nel mondo di quest’autrice scomparsa troppo presto.
Carlo Crotti