“Ce ne andiamo, Cinzia, torniamo a Catania!”
Eravamo già a Catania, ma aveva ragione: quel posto era tutta un’altra città.
Nel romanzo di Martina Asero intitolato Niente posto per le fiabe (Caravaggio editore) il capoluogo Etneo non è uno sfondo accessorio o una vaga ambientazione ma una vera e propria entità, vivida e palpabile, con tutte le sue contraddizioni, dotata di una precisa gerarchia di valori – a volte discutibili – che influenzano la vita e i destini dei suoi abitanti.
Cinzia deve spostarsi appena in periferia dopo la morte del padre, ma quel trasloco ribalta la sua esistenza: pochi chilometri più in là l’attendono una scuola e un giro di amicizie che sembrano appartenere a un altro mondo. Questa nuova vita è più dura, non solo per l’assenza della figura paterna, ma soprattutto per il modo in cui le sfide e i guai più intimi delle persone appena conosciute si ripercuotono su di lei.
Niente posto per le fiabe racconta di un disagio sociale, lasciando che il lettore si addentri in una storia sfiorata da degrado e arretratezza. La bravura dell’autrice, però, consiste nel raccontarcela in maniera tanto delicata che persino le scene più cruente mantengono un equilibrio funzionale e armonico. Sì, perché i contrasti non mancano, né quelli interiori né quelli fisici, che si manifestano con l’esplosione di rabbia, ferite, lividi e cicatrici. La sopravvivenza nel nuovo quartiere passa anche attraverso l’imposizione della presenza, del corpo, dei movimenti e persino del combattimento.
Proprio la corporeità gioca un ruolo principale nel romanzo. I corpi si attraggono e si respingono, lottano e si abbracciano, non sempre assecondando i desideri più reconditi. Così a volte la violenza non è espressione di cattiveria ma di semplice ribellione, e a volte l’abbraccio è desiderio di normalità piuttosto che brama di intimità.
La presenza del corpo è una costante che attraversa tutto il romanzo e che si mostra in molteplici sfaccettature: prevaricazione, coercizione, aspirazione, vergogna, orgoglio e diversità.
Cosa c’entrano, dunque, le fiabe con i corpi che si attraggono e respingono, si arrecano del dolore, si nascondono per la vergogna o si mostrano con immodesta volgarità? La ragione è semplice: da un lato si gioca una partita per la sopravvivenza in un ambiente ostile, per cui il corpo è il punto di unione tra interiorità ed esteriorità, tra io e super-io; dall’altro si svolge una sfida ancora più delicata e subdola sul piano della diversità, che oggi è un tema molto alla moda e altrettanto importante nel progresso civile e nell’affermazione dei diritti umani. Il corpo mostra tutte le contraddizioni tra l’essere e il sentire, l’essere e l’apparire, tra le aspettative sociali basate sugli stereotipi di genere e le inclinazioni personali radicate nell’inconscio.
In questo groviglio di conflitti e in questa spasmodica attività di ricerca e rigetto della corporeità, la fiaba è un modo per distrarsi e per rassicurarsi, in quanto veicolo di una verità priva di imprevisti e consolatrice proprio perché di essa si conosce sempre il finale.
“Niente fiaba?”, chiese Zucca.
“Non ne ho voglia.”
Chiusi il libro e mi girai dall’altra parte del letto.
Zucca appoggiò il suo corpo sul mio e con molta delicatezza mi cinse le spalle con le braccia.
Ero arrabbiata, non avevo nessuna voglia di parlare con lui. Ma dovevo ammettere che mi piaceva che mi abbracciasse.
Forse, però, il vero motivo per cui non c’è più posto per le fiabe nel romanzo di Martina Asero è la coercizione con cui i personaggi sono costretti ad abbandonare l’infanzia. Soffocati da pensieri che dovrebbero investire solo gli adulti, messi di fronte a una realtà ostile e complicata, questi ragazzini non hanno altra scelta che affrontare il mondo, sbatterci contro, sollevarsi ad ogni frequente caduta, e ritrovarsi un tantino più adulti e un po’ meno bambini ogni volta che si risollevano dal terreno. Accade sempre, quando un bambino o un adolescente debbono occuparsi di un genitore che non sa o non può assolvere al proprio ruolo, e quando vengono ricoperti di mansioni e di responsabilità domestiche capaci di soffocare la spensieratezza infantile. Badare ai fratelli più piccoli, temere per le finanze familiari dissestate, sentirsi sprovvisti di una protezione genitoriale sono tutte circostanze che attentano all’equilibrio psicologico di un ragazzino. Ma la periferia di Catania, al pari di ogni periferia in qualsiasi altra parte del mondo, non sempre è in grado di proteggere i più piccoli, e allora ai più piccoli, quando sono fortunati,non resta che stringersi in un’amicizia speciale, nella quale medicarsi le reciproche ferite e lenire a vicenda il dolore per la fanciullezza perduta.
Giuseppe Raudino
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