Kurtz di Jean-Marc Aubert (uscito in Francia nel 1998 e portato in Italia nel 2021 da Prehistorica Editore) è un romanzo in cui la sessualità viene ridotta a sfida performativa, figlia della cultura atletista occidentale, ma allo stesso tempo – e di conseguenza – percepita nella sua profonda e oscura ragione antropologica. Nella cornice di un concerto a due personaggi, il capolavoro di Conrad, Cuore di tenebra, viene così rifunzionalizzato, anche stravolto, in forma di dispositivo metaforico. Che parla di un desiderio non raggiunto, di un’aspirazione o altra vita.
Parigi; un uomo – di cui non viene rivelato il nome – incontra una donna, Laure, e insieme decidono di fare sesso. Tutta la storia di Kurtz si può ridurre a questo punto di partenza essenziale, di cui il romanzo è non tanto lo sviluppo sul piano narrativo, fisico, bensì su quello teorico, in certo senso intellettuale. Il cuore del libro è infatti, più che un’azione, un desiderio, qualcosa che deve arrivare: tutto ciò che segue la decisione di fare sesso da parte dei protagonisti – Laure appare all’uomo come una dea in terra, l’incarnazione viva dell’eros – è la lunga preparazione a questo evento, inframmezzata da alcuni incontri in cui i personaggi si aggiornano sul proprio stato e discutono le condizioni ideali per il loro incontro decisivo.
Quella di Kurtz è dunque effettivamente un’architettura del desiderio, attraverso cui i protagonisti immaginano e progettano il disegno del risultato finale, poi costruiscono da sé le tappe necessarie per raggiungerlo. Da qui il minimalismo – di trama e di stile – cui ricorre Aubert, che ha una duplice funzione: da una parte rafforza la relazione tra i due personaggi (specie di monadi, di statue magnetiche che attraendosi a vicenda scatenano lo sviluppo della storia); dall’altra permette di seguire essenzialmente (cioè pienamente) i passaggi di questo tendere verso il sesso.
I due personaggi principali si sottopongono, dunque, a una vera e propria trasformazione antropologica, che li conduce in una condizione nuova, pronta all’adempimento effettivo del desiderio. La trasformazione si applica del resto a tutti i livelli dell’umano: sul corpo in sé (il duro workout per tonificare e rafforzare il fisico), sull’abbigliamento («potevo permettermi un paio di pantaloni stretti e un pullover sottile e attillato. Tutto nero, naturalmente. […] Ispira timore e silenzio. Il nero si addice ai dominatori»), sull’intelletto (lo studio delle posizioni ideali, affrontato anche attraverso una serie di disegni inseriti nel testo), sul linguaggio (durante uno degli incontri i due discutono del «vocabolario» del sesso), sul tempo (l’appuntamento fissato al 27 maggio come data escatologica), sullo spazio (la ristrutturazione radicale dell’appartamento in cui si incontreranno).
La dimensione su cui più si insiste, però, è quella atletica, vera chiave di volta del libro. Nella sessualità ridotta a performance – per cui occorre prepararsi secondo un rito di esercizi seriali e test del risultato – si trova infatti tutto l’efficientismo occidentale, l’alienazione verso cui il libro, in fin dei conti, è interamente rivolto: protagonista e Laure sono personaggi-funzione di un mondo svuotato alla radice («A dire il vero la mia vita è piuttosto monotona e assai poco interessante»), in cui pure la sessualità – cioè l’aspetto più animale e carnale dell’uomo – decade da eros e estasi a stimolo meccanico («Raggiunsi ben presto il piacere della macchina»).
La serie di prostitute (significativamente con nomi interscambiabili tra loro: «Lulu», «Lila», «Lola») con cui fa sesso il protagonista prima di incontrare Laure è dunque un allenamento a tutti gli effetti – non solo dal punto di vista dell’esercitazione fisica, ma soprattutto dal lato simbolico. L’incontro progettato con Laure infatti è simbolicamente codificato come “gara”, “finale” dagli stessi giocatori: il desiderio, insomma, non riguarda tanto l’atto sessuale, né una specifica carne (quella di Laure), bensì il contesto tramite cui l’atto e la carne vengono promossi a performance, evento culturalmente orientato.
Da questo punto di vista comprendiamo, allora, tanto il ruolo di Cuore di tenebra, quanto – e sono due cose intrecciate – la questione della mediazione culturale, su cui il libro investe diverse pagine. In quanto architettura e atletica, il desiderio si configura infatti in Kurtz come desiderio “imparato”, desiderio figlio di una cultura (e cioè di un diaframma che separa l’uomo dalla natura). Così l’apprendimento che il protagonista segue è anche un processo di mediazione, tramite cui si acquisiscono le tecniche, le narrazioni, le estetiche del sesso necessarie al raggiungimento del compito finale. Il protagonista, insomma, compra giornali erotici, archivia video pornografici, si fa dare consigli, e così via: «Le mie fantasie infine, ammesso che ne abbia, in genere non fanno che ricalcare gli stereotipi della mia condizione sociale – che è media –, con qualche aggiunta ispirata dai pochi romanzi erotici che ho avuto occasione di leggere e dai film di genere che ho sempre trovato noiosi. Insomma, come vedrete, non ho molta immaginazione.»
Ma tra le mediazioni – ed ecco il nodo irrisolto, quindi il motore, del romanzo – c’è anche Cuore di tenebra, che non a caso è un libro che porta fuori dall’Occidente: i due protagonisti citano il libro di Conrad, lo trattano come mediazione da cui apprendere qualcosa sulla vita e sull’eros, dal momento che il protagonista – e precisamente il suo fallo – finisce per identificarsi con Kurtz. Ma il fallo, appunto: in quanto sessualità integralmente pre-civile, genuina e grezza assieme, Kurtz coincide prima di tutto con il fondo nero della non-performance, l’animalità assoluta verso cui si scontra ogni idea di utilità occidentalista («Tira fuori il membro, lo infila, lo ritira e dimentica. Non ne trae la minima gloria […] Fa parte del ciclo. Non ha più nessuna pretesa di esistere, di essere, di avere una sua individualità. Ritiene che siano tutte sciocchezze. Quest’uomo è Kurtz»), mentre Cuore di tenebra è da una parte, in quanto libro, un ulteriore scarto dalla natura, dall’altra, in quanto viaggio, il sogno drammaticamente esotico che smarca dal rassicurante atletismo occidentale. Reggersi su questo equilibrio tra performance alienante e distruttiva attrazione verso l’animalità è la sfida del protagonista di questo romanzo tanto minimale quanto denso di Jean-Marc Aubert.
Antonio Francesco Perozzi
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