Si intitola L’illusionista, con un nome già carico di suggestioni estrose e malinconiche, che richiama alla mente un mondo e un’arte che non esistono più e che pure sono ancora in grado di incantare. È il secondo e ultimo, almeno finora, film d’animazione di Sylvain Chomet, che arriva nel 2010, cioè sette anni dopo il ben più famoso Appuntamento a Belleville (per favore, Chomet, non farci aspettare ancora per averne un altro). Come il precedente, anche questo ottenne la doppia nomination agli Oscar e i Golden Globe.
La storia è quella di un prestigiatore sul viale del tramonto, ridottosi a esibizioni che richiamano un pubblico sempre più inconsistente. Siamo agli sgoccioli degli anni Cinquanta e agli albori di un periodo che noi italiani conosciamo come boom economico, e che avrebbe portato con sé il trionfo delle autovetture, la consacrazione del consumismo e la diffusione del rock and roll. Ma questa atmosfera di gioiosa prosperità, nello sguardo dell’Illusionista, compare soltanto sotto forma di imprendibili feticci o di temibili miraggi. La prospettiva è quella dell’illusionista del titolo, che non possiede altro se non la sua professione. È un uomo avviato verso l’anzianità, costretto dai tempi che corrono a esibirsi in teatri semivuoti o in postazioni arrangiate, davanti a spettatori per nulla impressionati dai suoi pur mirabili prodigi. La fotografia è ormai pratica nota, il cinema non fa più paura e l’uomo del Novecento non si lascia più impressionare.
Soltanto una ragazza, tanto povera quanto ingenua, è ammaliata dai suoi numeri di magia. L’illusionista la incontra in Scozia, a una tappa del suo improvvisato tour europeo, che lo porta ovunque ci sia qualcuno disposto a pagarlo, e da lì non si separano più. Vanno a vivere insieme in una pensione che ospita altri mestieranti espulsi da uno showbusiness in fase di riassestamento: un clown depresso, per esempio, o un ventriloquo spiantato. I due si prendono cura l’uno dell’altra nutrendo un reciproco e confortante amore filiale. L’illusionista le regala nuovi abiti e nuove scarpe, facendo apparire i suoi doni come si estrae una monetina dall’orecchio, e lei li accetta col candore di chi crede che davvero i soldi possano venir dal nulla. La lezione sarà spietata per tutt’e due: lui accetterà che questo non è un mondo per maghi e lei scoprirà che la magia non esiste – o forse sì, ma la realtà è sempre più forte.
In un momento in cui il 3D e l’animazione computerizzata avevano già preso il sopravvento, Chomet confeziona un film vecchio in tutto e per tutto: disegnato a mano, ambientato nel secolo scorso, e per di più tratto da una sceneggiatura mai realizzata di Jacques Tati. Quel Jacques Tati. L’illusionista è ricalcato sulle fattezze del cineasta francese e del suo iconico Monsieur Hulot, col suo tipico impermeabile e il suo stesso nome, quel Tatischeff che si legge solo sui manifesti dei suoi spettacoli e che era il vero cognome del regista. La narrazione vuole che Tati avesse scritto il soggetto a metà anni Cinquanta e che intendesse recitarlo insieme alla figlia, ma ritenendosi poi inadeguato a vestire i panni dell’illusionista avesse abbandonato il progetto. La storia arriva nelle mani di Chomet, che la fa vivere con grande dignità, restituendole tutta la nostalgia che può scaturire dalla penna di un regista che non c’è più, come il mondo da lui raccontato. Omaggio degli omaggi, Chomet decide di far incontrare il protagonista col suo vero creatore: a un certo punto, l’illusionista si intrufola in un cinema dove viene proiettato Mio zio; il vero Tati è sullo schermo, permettendogli così per un attimo, pur solo nella finzione, di veder realizzata la sua creatura.
Se già questo non fosse abbastanza per definirlo un’opera d’altri tempi, si aggiunga poi che è pressoché un film muto. La parola, com’era già in Appuntamento a Belleville, è rarefatta. Solo che lì si faceva simbolo, mentre qui è quasi un surplus. I pochi suoni udibili sono bisbigliati, farfugliati, quasi irriconoscibili e comunque non necessari. Chomet lascia che siano le immagini e i gesti a parlare per sé. In una visione del tutto coerente, la parola scritta è significativamente più rilevante rispetto a quella parlata. E così, come pure era in Belleville, ritornano le sagome che parrebbero essere tipiche dello stile di Chomet. Le figure umane sono esageratamente iperboliche nella loro corporeità, sempre troppo alte, o troppo basse, o troppo nasone, o troppo dentute. La loro fisicità è tanto grottesca quanto tragicamente sinistra e crudele. Gli unici che quest’animazione abbia risparmiato sono i protagonisti, gli unici a cui abbia lasciato un po’ di umano realismo, che poi sono i soli che vorremmo incontrare in questo mondo.
La sfida è riuscire a guardare L’illusionista senza versare neanche una lacrima (vi diremo soltanto una cosa: il coniglio). Ma perché, poi? Piangete, anzi. Commuovetevi anche voi. Concedetevi a questa creazione, al viaggio dell’illusionista Tatischeff tra i palcoscenici di second’ordine e le insidie dell’età moderna. Fino alla sua decisione di imbarcarsi su un treno, lontano dalla ragazza e da Edinburgo. E mentre lui va via, le luci dei lampioni e delle vetrine, dove riposano adesso i vecchi armamenti del suo mestiere, si spengono un po’ alla volta. A significare che le luci sullo spettacolo – sul suo spettacolo – si sono spente per sempre.
Il film è attualmente disponibile su RaiPlay.
Andrea Vitale
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