Nel 2015 Hanya Yanagihara ha pubblicato quello che si è poi rivelato un bestseller mondiale, e che soltanto in Italia ha superato la diciannovesima ristampa diventando un vero e proprio caso letterario: Una vita come tante, edito Sellerio. Un libro senza dubbio polarizzante: c’è chi lo ha amato, nonostante i difetti, struggendosi per il doloroso e inevitabile destino di Jude ed empatizzando con il suo malessere (come la sottoscritta), e chi ha tacciato l’autrice di pornografia del dolore, o crudeltà gratuita, come ha d’altronde chiosato nel suo articolo sul New York Review of Books il critico Daniel Mendelsohn.
Quello su cui lettori affezionati e critici spietati concordano, però, è l’innegabile talento di Yanagihara nel plasmare narrazioni emotivamente disturbanti. Ma è sempre sufficiente?
Dopo aver letto con avidità le 1094 pagine di Una vita come tante, finalista al Man Booker Prize e al National Book Award, l’asticella delle aspettative si è alzata in maniera consistente. L’attesa è stata ripagata? Posso dire che Verso il paradiso mi sia piaciuto? Sì, ma con riserva.
In un’intervista rilasciata al New Yorker, Yanagihara ha affermato di aver iniziato a scrivere Verso il paradiso nel 2016, in seguito a una conversazione con l’editor Jared Hohlt a proposito di Washington Square di Henry James. In particolare, i due si sono chiesti, e cito: come sarebbe cambiato Washington Square se fosse stato riscritto come la storia di un matrimonio tra due persone dello stesso sesso? Come si sarebbero modificate le dinamiche di potere? E il peso emotivo?
L’autrice, che per alcuni ha scritto “il più grande romanzo gay”, continua a raccontare di mondi sostanzialmente distanti dal suo, e a chi le domanda perché lo fa, lei risponde laconica “ho il diritto di scrivere di ciò che voglio”.
Ma torniamo a Verso il paradiso.
Il romanzo di James, Washington Square, è stato pubblicato a puntate nel 1880 e ha una trama semplice: Catherine incontra e si innamora del giovane Morris Townsend, il padre di lei disapprova l’unione, considerando il giovane un “folle egoista”.
E proprio a questa trama lineare, ottocentesca, è ispirato il primo dei tre libri che compongono Verso il paradiso.
Il libro I è ambientato nel 1893 in una America divisa tra le Colonie, dove continuano a vigere leggi razziali, e gli Stati liberi, nei quali c’è, come sufferisce il nome stesso, libertà di vita e nel quale le unioni tra uomini non vengono vietate, bensì assecondate.
A volte per lui la vita era solo qualcosa che stava aspettando di consumare, per cui alla fine di ogni giorno si sistemava nel letto con un sospiro, sapendo di aver arrancato per un altro pezzettino, e di essersi spostato di un altro centimetro verso la sua naturale conclusione.
David Bingham, giovane rampollo di una ricca famiglia di New York, incontra nella scuola in cui insegna Edward Bishop (“quel che ama è il tuo denaro, l’idea di farlo suo”, secondo il nonno di David), un affascinante giovane maestro di pianoforte dal passato misterioso. L’attrazione scoppia immediata, la passione è intensa e i due son trascinati in un rapporto totalizzante, dove è facilmente individuali una vittima e un carnefice, e che porterà David a una presa di posizione che stravolgerà la sua vita e i suoi rapporti familiari.
In questa prima parte, che potremmo considerare la più riuscita, quella più vicina alla maestosità di alcuni romanzi d’appendice, trovano spazio temi già noti ai lettori di Yanagihara: amore omosessuale, conflitto generazionale, confronto tra classi sociali diverse, personaggi dalla storia nebulosa, tormenti interiori.
Il finale aperto cede il passo alla seconda sezione chiamata Lipo-wae-nahele.
Qui ritroviamo i nomi che abbiamo imparato a conoscere in precedenza, quasi come se si fossero reincarnati: nel romanzo, infatti, il filo rosso che collega le tre storie (e le altre sottotrame), oltre alla dimora di Washington Square, sono i nomi propri. Nuovi David, nuovi Charles, nuovi Edward, ma anche una nuova relazione sbilanciata e una nuova New York questa volta dilaniata dall’AIDS. Siamo nel 1993 e il protagonista è un venticinquenne hawaiano tormentato dalle sue insicurezze e turbamenti: si sente inferiore, un fantoccio, quasi una nullità rispetto all’uomo con cui ha intrapreso una relazione; è torturato dal passato, dalle sue origini e dai ricordi che lo legano al padre. Forte è la componente autobiografica: Yanagihara ha origini hawaiane e le sue parole, qui, risuonano come una critica al rapporto tra Hawaii e Stati Uniti. Esemplare è questo passaggio:
Americano? Voi credete a quelle stronzate che ‘l’America è per tutti?’. L’America non è per tutti ‒ non è per noi. Questo lo sapete, vero? Nei vostri cuori e nelle vostre anime? Lo sapete che l’America vi disprezza, vero? Loro vogliono la vostra terra, i vostri campi e le vostre montagne, ma l’America non vuole voi.
La terza ‒ e più consistente ‒ sezione è Zona Otto. Qui c’è un balzo di genere: siamo nell’universo della fantascienza, della distopia, e le atmosfere sono decisamente più inquietanti. La New York è quella del 2093 devastata da pandemie, crisi climatica, e governata da un regime totalitaria in cui impera la disuguaglianza sociale.
Alla fine, quello che tiene insieme un romanzo che avrebbe potuto essere smembrato e pubblicato indipendentemente è l’intenzione. Yanagihara, con uno stile sbrodolato in alcuni punti, annacquato in altri, seppur sempre ricercato, stira la narrazione fino all’esasperazione, ammalia il lettore e allo stesso tempo lo sfinisce. Gioca con i suoi sentimenti, con le sue emozioni (e a farlo è esperta), con la sua concentrazione e sembra quasi avere come unico obiettivo quello di portare al limite la pazienza di chi legge.
Alterna segmenti didascalici ad altri di una bellezza e poesia difficilmente eguagliabili; momenti introspettivi, di riflessione volutamente esagerati, a dialoghi incalzanti. Lei scrive per sé e la necessità di sperimentare è più forte della coerenza strutturale e perfezione compositiva. Manganelli diceva che la letteratura è cinica ma anche che quando «splendidamente deforme, impone la coerenza sadica della sintassi; irreale, ci offre finte e inconsumabili epifanie illusionistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità.» E io credo che queste siano le parole migliori per descrivere il microuniverso letterario in cui inserire Yanagihara.
Perciò sì, perordinerei Verso il paradiso anche a posteriori, perché conscia dei difetti ho apprezzato il viaggio, il coinvolgimento emotivo provato in certi passaggi, e credo che alcune volte la lettura non debba essere necessariamente priva di difficoltà, ma provante.
Proprio come i protagonisti del romanzo, che rincorrono un paradiso che non esiste, un ideale di vita priva di crepe e macchie, così il lettore non si troverà davanti a un libro perfettamente concepito, ma le riflessioni su politica, amore, violenza, indipendenza, totalitarismi valgono l’intera lettura.
Nicole Zoi Gatto
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