I film da riscoprire: Sir Gawain e il Cavaliere Verde

Come molti altri titoli a noi noti, Sir Gawain e il Cavaliere Verde ha subíto la stessa sorte dei film investiti dalla pandemia di Covid-19. Inizialmente previsto per la primavera 2020, la sua uscita è arrivata a slittare a un anno più tardi. In Italia, però, non ha mai visto il buio della sala, venendo rilasciato direttamente in streaming lo scorso novembre. Come altrettanto spesso è accaduto ai film di questi ultimi due anni, la sua distribuzione travagliata si è conclusa con un’accoglienza silenziosa: nemmeno la distribuzione su piattaforma è riuscita a dargli la visibilità che meritava.

Strano, se pensiamo che in patria Sir Gawain è stato accolto con un plauso generale. Meno strano, se consideriamo che queste cose da noi in realtà accadono assai spesso, a volte a torto, altre a ragione. Questo è uno di quei casi in cui ci siamo sbagliati, che anzi si farebbe bene a recuperarlo. Se volete averne un motivo, sappiate innanzitutto che il film si inscrive nella famiglia delle trasposizioni fantasy di ascendenza letteraria; i suoi natali sono più antichi di quelli di Harry Potter, trascendono persino l’opera di J. R. R. Tolkien, che di questo lavoro fu egli stesso studioso e ammiratore.

Chi è Sir Gawain

Sir Gawain e il Cavaliere Verde, infatti, è tratto dal poema cavalleresco omonimo del tardo XIV secolo, giuntoci in un unico manoscritto in inglese antico e di autore anonimo. Gawain è colui che noi chiamiamo Galvano, nipote di re Artù, figlio di sua sorella Morgana e cavaliere della leggendaria Tavola Rotonda. È l’ineccepibile eroe che la tradizione ci ha consegnato, quell’uomo onesto e coraggioso che nella letteratura del ciclo bretone appare dotato di ammirabili virtù – e il poema stesso non fa eccezione.

Durante i festeggiamenti natalizi, alla corte di Artù fa irruzione un misterioso cavaliere – dalle sembianze di un albero, e quindi verde – armato di ascia. Egli lancia una sfida ai cavalieri presenti: chi di loro avrà il coraggio di affrontarlo e riuscirà a colpirlo, riceverà in dono la sua arma e beneficerà degli onori della sua gloria. C’è una sola, rilevante condizione, però: colui che vincerà il duello, a distanza di un anno dovrà recarsi alla Cappella Verde per ricevere in cambio lo stesso colpo che abbia inferto. Gawain (qui Dev Patel) raccoglie la sfida e, armatosi di Excalibur, decapita in un sol gesto il Cavaliere Verde. La gloria, in effetti, non tarda ad arrivare: la fama di Gawain si diffonde nel paese e la sua impresa viene rappresentata in lungo e in largo. Ma un anno passa presto.

Le differenze dal poema al film

La premessa e l’ossatura della trama restano invariate dal poema al film. Ciò che invece riceve un cambiamento sostanziale è il protagonista, dando così un risvolto del tutto nuovo alla sua vicenda. Gawain non è il cavaliere senza macchia che conoscevamo, ma tutt’altro: anziché essere l’impavido che si sostituisce al re per preservarne l’incolumità, diventa l’imprudente che brama riconoscenza. Gawain desidera il titolo e gli onori di un cavaliere senza doversi sottoporre alle fatiche che questo comporta. È soltanto per sentirsi degno di suo zio e degli altri astanti che impugna la spada, ma un anno più tardi, quando si presenta il conto da pagare, non è sicuro di voler saldare il suo debito.

Di questa decisiva revisione di uno dei personaggi più celebri delle leggende arturiane, il regista David Lowery dà conto attraverso le parole di un altro personaggio. Una Signora (col volto di Alicia Vikander), che darà ospitalità a Gawain quasi al termine del suo viaggio, colleziona manoscritti, li trascrive finanche, e non si limita soltanto a questo: «quando vedo margini di miglioramento, li riscrivo». Che è esattamente ciò che fa il film: ripropone una storia, ma la riscrive pure.

Del resto, a cosa sarebbe servito, oggi come oggi, il racconto di un uomo irreprensibile dall’inizio alla fine? Ecco che dunque il suo cammino diventa un percorso di miglioramento, di perfezionamento interiore e di crescita morale. Gawain affronta le sfide che gli si presentano fino al suo incontro col Cavaliere Verde dando prova di meschinità, codardia, cedevolezza. Non è un individuo spregevole; semplicemente non è ancora un cavaliere.

Lo stile dell’opera

Oltre ad affidare i suoi intenti programmatici alle parole della dama, Lowery (già regista di Storia di un fantasma e Old Man & the Gun) dissemina la propria impronta praticamente dappertutto, a partire dai fotogrammi iniziali. I personaggi sono praticamente avvolti nell’ombra, che impedisce di definirne i contorni, figurarsi poi percepire l’ambiente in cui si muovono. A poco a poco i toni scuri cedono il passo a colori più caldi e illuminazioni più diffuse, ma mai tali da farci smettere di palpitare. Se non sapessimo che ci troviamo in territorio high fantasy, potremmo benissimo pensare che quello a cui stiamo assistendo sia un horror. L’intero stile compositivo, non soltanto estetico, suggerisce che la narrazione ha ben poco di epico.

A questo scopo contribuisce anche la spersonalizzazione del contesto. Gli ambienti sono raramente inquadrati nella loro maestosità, e una corte reale appare misera e buia quanto un’umida caverna. Benché sappiamo abbastanza di re Artù e di Camelot da poter collocare le vicende nella giusta dimensione spazio-temporale, di quella magnificenza mitica e umana rimane appena una spada illuminata. L’Inghilterra sembra deserta e misteriosa, e dei cavalieri di cui abbiamo imparato le imprese non resta neanche un nome: i commensali alla Tavola Rotonda sono poco più che sagome, Ginevra si riconosce per proprietà transitiva, di Merlino non c’è neanche traccia.

La religione ai tempi di re Artù

Le uniche coordinate che abbiamo sono quelle religiose: siamo nel tempo di Natale, esiste una comunità chiamata chiesa e il popolo di Artù frequenta messa. Eppure siamo ben lontani dai festeggiamenti natalizi come siamo soliti intenderli ai nostri tempi. Benché il cristianesimo avesse ormai attecchito da tempo, nel XIV secolo la commistione tra la nuova religione e il paganesimo non aveva ancora agito a favore dell’uno o dell’altro. Il cristianesimo, anzi, è tenuto ad accettare l’eredità di un mondo pagano persistente, col quale comunque sembra convivere pacificamente: accanto allo spirito della santa Winifred del Galles compaiono i giganti in simil-pietra; Morgana, la madre di Gawain, è una strega usa a rituali magici; lo stesso Cavaliere Verde è una figura debitrice dell’antico culto celtico.

Anche questi però, nelle mani del regista e sceneggiatore, si fanno elementi da rimodellare a suo piacimento, talvolta introducendone di nuovi di sana pianta (come nel caso della volpe parlante). Tutto viene ripassato al vaglio di una morale diversa. Si passa dall’esaltazione della virtù alla valorizzazione del sacrificio, del rispetto e dell’abnegazione – e forse sì, in questo senso, è la visione cristiana ad avere la meglio su quella pagana e cavalleresca. La storia di Gawain e del suo viaggio diventa così una storia nuova, capace di vivere ancora, e di parlarci nuovamente.

Andrea Vitale

Napoletano di nascita, correva l'anno 1990. Studia discipline umanistiche e poi inizia a lavorare nel cinema. Nel frattempo scrive, scrive, scrive sempre. Ama la musica e la nobile arte delle serie tv, ma il cinema è la sua prima passione. Qualunque cosa verrà in futuro, non abbandonerà la penna. Meglio se ci sia anche un film di mezzo.

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