Da una parte c’è Siracusa, la città siciliana patrimonio dell’umanità, culla di una civiltà antichissima, sede di un passato che ci riporta alle nostre origini greche e romane. Dall’altra c’è Riga, la capitale lettone nata diversi secoli dopo e passata sotto altre influenze e altri domini. Due climi e due temperamenti differenti, che suggeriscono probabilmente atmosfere ancora più diverse tra loro. In mezzo, c’è tutto un viaggio da fare e un mondo da scoprire, ma come spesso accade nei viaggi non è la destinazione finale ciò che conta davvero, e il mondo da scoprire è quello che ci portiamo dentro.
Quintetto d’estate è il nuovo romanzo di Giuseppe Raudino, edito da Ianieri nella collana Forsythia, e ha due anime proprio quante sono le città che fanno da punto di partenza e di arrivo del suo racconto. Una è quella del romanzo di viaggio, un po’ on the road e un po’ tour culturale, con i compromessi che comporta spostarsi su quattro ruote e lo sguardo sempre puntato sulle meraviglie che ogni tappa ha da offrire. L’altra è quella del romanzo di formazione – l’anima preponderante si potrebbe dire, perché tutta la struttura e il tono del libro concorrono a privilegiare le scoperte e l’educazione dei suoi protagonisti.
Protagonisti sono Ileana, Martina, Fabrizio, Stefano e Calliroe: cinque ventenni appena diplomati al conservatorio di Santa Lucia di Siracusa a cui l’estate incipiente ha preparato una sorpresa. Uno dei loro docenti, infatti, ha appena vinto un premio per una sua composizione e ha scelto proprio loro cinque per viaggiare fino a Riga ed esibirsi all’Opera Nazionale col suo brano. Che è, manco a dirlo, un brano per un quintetto. L’unica condizione è che sia lui a dettare tutte le condizioni: proveranno quando lo dirà lui, viaggeranno alla sua maniera e si fermeranno quando deciderà lui.
Non sarà un semplice viaggio di andata e ritorno in aereo, ma un vero e proprio percorso. Partiranno tutti insieme muovendosi in un camper, condivideranno ogni singolo momento e spazio, e si eserciteranno tutta l’estate prima di arrivare in Lettonia. Ma perché il maestro ha scelto cinque ventenni neodiplomati e non dei professionisti? E perché proprio loro, tra cui esistono trascorsi indimenticati e simpatie non ancora sbocciate? Perché non affidarsi a un quintetto meglio assortito?
«Il docente è colui che mette in scena. Per prima cosa il maestro notava una rassomiglianza con l’istruttore che dispone e dirige, intimando ordini e muovendosi come un regista che cura la scena, dandole forma e interpretazione.»
Il romanzo ritorna di continuo sul ruolo del maestro, insistendo sull’etimologia del termine e su tutti i sinonimi a esso correlati: che sia un professore, un insegnante o un docente. È un perenne rimando alle antiche radici del nostro vocabolario, e dunque alle nostre origini – ma su questo torneremo tra poco. Il maestro non è deputato soltanto a indicare la corretta fruizione di uno strumento, bensì anche a mostrare che cosa quegli strumenti possono tirare fuori da noi. Si capisce che non è una mera questione di tecnica e studio. Per dare veramente il meglio di sé, i cinque ragazzi dovranno amalgamarsi, scoprirsi (anche tra di loro) e spogliarsi dei propri pregiudizi, delle insicurezze, delle indecisioni. Dovranno, cioè, crescere.
C’è una sessualità dirompente e scalmanata in Quintetto d’estate e che si fa via via più eccitante ed eccitata man mano che il viaggio procede e i ragazzi acquisiscono consapevolezza di sé stessi. È naturale, del resto, in un’età che è così vicina all’adolescenza e in cui la scoperta del proprio corpo e le prime esperienze sessuali sono un processo appena agli inizi e incline a prendere direzioni impreviste. Non è, tuttavia, una sessualità fine a sé stessa, al solo scopo di incuriosire. Più che erotismo, diventa sinonimo di confidenza, di conoscenza, di emancipazione, e si inserisce a pieno titolo nel percorso di crescita di cui è una tappa da attraversare.
«Quello era stato il primo vero momento in cui il quintetto aveva preso forma, sotto il segno dell’estate che si mostrava sui loro corpi accaldati e appena coperti dalla stoffa colorata di un costume, sotto il segno di una prova musicale stravagante.»
Sembra inevitabile, tuttavia, che in questo tragitto fisico e interiore resti sempre ben chiaro da dove sono partiti. Tenere d’occhio la meta, ma senza dimenticare l’origine. Siracusa, e con lei le vestigia di una civiltà e di una gloria che non accennano a sparire, sono praticamente dappertutto. Persino a Riga, in una città che potrebbe essere quanto di più diverso si possa immaginare, il suo richiamo resiste e si incarna nel piccolo Nino che fonde i tratti delle due civiltà.
La Sicilia è una terra testarda, assolata e indolente nelle pagine di Raudino. È la patria da cui bisogna partire per vedere coi propri occhi cosa c’è al di là di Scilla e Cariddi, ma che non si riesce a smettere di amare anche chiusa com’è, così riversa su sé stessa. E a cui, alla fine, non si può che desiderare di fare ritorno. Un ritorno che sia però consapevole, maturo, pieno. D’altronde, il romanzo non ci dirà mai come e quando i cinque ragazzi rimetteranno piede a casa. Quello possiamo solo immaginarlo: ciò che conta è sapere che quest’estate li ha cambiati per sempre.
«È un altro modo per amare Siracusa e ricordarsi che dietro la decadenza di oggi c’è un passato glorioso precipitato nell’oblio. Se l’amiamo anche decaduta, quanto possiamo amarla, questa nostra città, pensando agli antichi fasti? Dobbiamo trovare la giusta prospettiva e, per amarla ancora di più, allontanarcene, in modo da sentire la malinconia nobile di chi ha perduto l’amore e non può tornare tra le braccia amate.»
Andrea Vitale
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