Come regista di biopic, Pablo Larraín si è specializzato in storie di tragica resistenza: prima con Neruda e con quei film sulle repressioni in America Latina, poi con Jackie, sulla first lady che rimase vedova del marito per omicidio, e adesso anche con Spencer. Lo dice anche la tagline che apre il film: una favola ispirata a una tragedia vera. E questa, lo sappiamo, è la tragedia di una donna che morì troppo presto e in circostanze orribili.
Non sono resistenze qualunque, quelle di cui parla: di fronte ai protagonisti dei suoi film – che siano personalità eminenti o pure invenzioni – c’è sempre la Storia. Il privato dei suoi personaggi dipende inesorabilmente dal pubblico dei grandi eventi, coi dolorosi processi della Storia e i suoi lutti a metterli alla prova fino allo stremo. A volte, come nell’immagine di Jackie ancora sudicia del sangue del defunto marito, si insinua anche il macabro. C’è qualcosa di macabro pure nel reiterare la storia di Diana e invitarci a guardarla: proprio di lei, cioè, che rinunciò malvolentieri alla sua privacy e che morì schiacciata tra i flash dei fotografi.
Eppure noi continuiamo a guardarla perché continuiamo a voler sbirciare nel privato delle celebrità. Diana è stata un’icona di stile, umanità e gentilezza prima, e un emblema di tristezza e riservatezza poi. È una donna che abbiamo mitizzato come facciamo con tutti coloro che se ne vanno via prima del tempo, e che dopo ci paiono ancora più grandi di quanto già non fossero in vita. Continuiamo a guardarla per quel piacere che si prova a sentirsi raccontare una storia che già si conosce. Magari per vederla da nuove angolazioni, per scoprire dettagli che non sapevamo, o – perché no? – per riscriverla.
La storia di Spencer è questa: in un imprecisato dicembre all’inizio degli anni Novanta, la famiglia reale britannica si riunisce a Sandringham, nell’Inghilterra orientale, per trascorrere le vacanze di Natale. Diana (qui Kristen Stewart) è venuta al corrente dell’infedeltà di suo marito Carlo, e benché davanti a lei ci siano solo tre giorni di festeggiamenti e di tradizioni rituali, pesano come se fossero tre secoli. Non ci sono preamboli o spiegazioni di altra sorta: Larraín non ha bisogno di dirci molto, perché la storia è – appunto – già nota. Sappiamo già benissimo di chi e di cosa stiamo parlando, perché tutto è già stato consegnato alle cronache mondane e agli annali della corte più famosa al mondo.
Fuorché per un particolare: che non è tutto vero. La ricostruzione dei fatti, in Spencer, è arbitraria. In parte veritiera, in parte immaginaria. Stavolta Larraín si prende la libertà di fare i conti con la Storia, quella reale, e provare a ribaltarla. Provare a immaginare cosa potrebbe essere accaduto in quel Natale in cui Carlo e Diana avrebbero litigato furiosamente, forse nel 1991, e magari dare a lei pure un finale diverso.
Nella versione di Spencer, la tenuta di Sandringham è una casa abitata da spettri, infestata dai fantasmi di un passato che agli occhi di Diana coincide col presente. Lo dirà lei stessa ai figli, che per loro esiste un solo tempo, il passato, e il futuro è azzerato. Tutto è già stato, tutto è già deciso e la tradizione che ritorna ha la consistenza di un macigno.
Non è il suo, di passato, a far paura a Diana. Gli unici fantasmi che vorrebbe vedere sono quelli che non riesce a percepire più. I ricordi della sua famiglia originaria sopravvivono appena in una giacca malandata e nei giocattoli d’infanzia che ancora riecheggiano delle sue vecchie risate. Quel tempo, però, sembra essersi dileguato. Il passato che tormenta Diana appartiene invece a qualcun altro. È la storia di Anna Bolena – la moglie di Enrico VIII che fu condannata alla decapitazione perché il re potesse sposare la sua amante – che rischia di ripetersi ancora e di rivivere con lei. Come se fosse davvero una tradizione a cui non si può sfuggire.
Larrain azzera le figure attorno a Diana riducendole al minimo indispensabile, come i rumori nella cucina. Sono sagome anche loro, come spiriti, eppure li sentiamo più vivi che mai sulle spalle di Diana. Per tutto il tempo sembra sola nell’immensa casa, e invece non lo è mai. I muri hanno le orecchie e ci sono occhi che la spiano dappertutto, anche attraverso le tende. Non c’è gesto e non c’è mossa della futura regina che un paparazzo, un sorvegliante o una guardarobiera non possano registrare, comunicare e impedire. E intanto il fantasma di Anna Bolena imperversa tra quelle mura e nella testa di Diana. Il suo spirito è più vivo che mai e più impietoso di uno spaventapasseri abbandonato nel mezzo di un campo.
La casa dei Windsor si staglia nelle campagne come la casa in The Others, circondata da altrettanta nebbia e da una patina che tutto avvolge e mistifica. A significare che, come nelle migliori tradizioni horror, quella è una terra di fantasmi. Alla fine, Larrain sceglierà di farla fuggire, darà a Diana la possibilità di abbracciare i suoi figli, prendersi gioco della tradizione, scorrazzare nella decappottabile cantando a squarciagola e mangiare un pollo con le mani. Forse c’è qualcosa di vero, forse è solo per riscatto poetico. Chissà, ma a noi piace pensare che sia andata davvero così. Che abbia avuto davvero quella chance.
Andrea Vitale
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