Estratto: Qualcosa di naturale di Alex Ezra Fornari
Da oggi in libreria Qualcosa di naturale di Alex Ezra Fornari per Wojtek Edizioni. Ringraziamo l’editore per l’estratto.
La chiamava kibbutz, mio padre, e noi cinque eravamo i primi coloni.
Mia madre, che la casa la stava guardando con occhi grandi e tanto neri che la pupilla ci si perdeva dentro, mio padre, che gli occhi li aveva del colore del mare mosso, mio fratello Elia che gli occhi li aveva chiusi e la bocca aperta da quando eravamo partiti cinque ore prima, e mio nonno, che da mesi al posto degli occhi aveva due tagli rossi, dal giorno in cui la nonna era caduta dalle scale e avevano messo la sua gamba in un gesso e poco dopo lei in una cassa.
E poi c’ero io, che gli occhi li ho verde marcio, condannati per questo a vedere in anticipo il decadere delle cose, le ombre prima ancora che le nubi coprano il sole.
Questo, almeno, secondo mia madre, che mi ha sempre fatto pensare a questa cosa come a una maledizione, una pietra pesante che mi aveva messo tra le mani chiedendomi di non posarla mai.
Quello che la prima sera a Grottammare i miei occhi videro, nella luce dei fari della nostra auto ferma, era una casa color calce alla fine di uno stradello di ghiaia, alberi di fico dalle foglie enormi, finestre con gli scuri aperti e Shoshana, nuda in piedi sulla sua sola gamba dentro la porta aperta.
Shoshana era la proprietaria della casa o la custode della casa o una ragazza che si era introdotta abusivamente nella casa fingendosi la proprietaria, o una vicina, o un’inquilina.
Con i miei era così, le versioni erano molteplici e tu alla fine, non sapendo quale fosse la verità, ti facevi un’altra idea ancora.
La mia idea era che Shoshana fosse la donna più bella del mondo.
Aveva capelli rossi scuri e lisci, la faccia innaffiata di lentiggini, i seni grandi e una gamba lunga e bianca alla fine della quale, incastonato come un rubino, c’era un triangolo di pelo fulvo, fitto come un bosco nel quale immaginavo si nascondessero volpi dello stesso colore.
Hippy house! disse mia madre vedendo già oltre la donna sulla porta, le stanze là dentro, su per le scale, la cucina con l’odore di gas della bombola, le camere e i bagni, quello con la turca a terra e l’altro con la vasca e la tenda di plastica a fiori.
Benvenuti, disse Shoshana, e anche Elia si svegliò e disse figa! E il ceffone di mia madre per poco non lo rispedì nel mondo dei sogni, e mio padre sorrise espirando rumorosamente col naso, e mio nonno stette là sul sedile davanti, col fazzoletto legato al collo convinto così di sentire meno il caldo, e quegli occhi che erano tagli sulla faccia, secchi come croste sulle ginocchia.
L’Opel Rekord è arrivata fin qui, ma pare non andrà più da nessuna parte.
Come gli eroi che nei film muoiono dopo aver compiuto un’impresa epica, ci ha portati qua e se n’è andata, con i suoi occhi gialli ancora accesi a illuminare quella che sarebbe stata la nostra casa per tutta l’estate.
La prima notte era un letto a castello e rumori di fantasmi e il mio pistolino duro come se avesse un osso dentro e il rumore di qualcuno che saltava su un solo piede sul pavimento di marmiglia.
Dormi Samu? chiede Elia.
No, faccio io, e mi arrampico sulla struttura di ferro ed entro nel suo letto.
Vedi di non pisciare sul materasso che poi mi cola in testa, mezzasega.
Sono anni che non piscio a letto, stronzo.
Non ci provare o ti prendo a bastonate con questo, e gli do due colpi sul fianco col cazzetto in tiro.
Piantala o dico alla mamma che mi tormenti.
Toccalo un attimo e scendo di sotto.
E lui ubbidisce, ché io sono il più grande.
Me lo sfiora appena e ritrae la mano e io per un attimo chiudo gli occhi e rivedo la ragazza con una gamba sola che salta su un piede, che mi avvicina la faccia alla faccia, mi fa ah sulla bocca e mi insegna come entrare in quel triangolo color volpe.
La mattina ha il sole in bocca, non l’oro, e io voglio vedere il mare.
La casa sa di caffè e di sale e delle sigarette dei grandi. Ci sono voci che non conosco e mi alzo e vado in cucina.
Non ce l’hai un costume? chiede mia madre.
Sono mutande, non sono uguali? rispondo io.
Seduti al tavolo ci sono, oltre ai miei, due uomini e una donna.
Lui è Bruno, il disc jockey, lui Maurizio, il barman e lei è Giusi.
E Giusi cosa? faccio io.
Giusi Giusi, ripete mio padre, come a intendere che essere una Giusi è già un’occupazione, una carica. Non mi ci volle tanto tempo per capire cosa fosse una Giusi e per anni nelle donne cercai giusezza e mancanza di qualifica e odore di sale e labbra che sorridono come lei mi sorrise quella mattina, con le finestre spalancate in cucina e i rami del fico che portavano i frutti acerbi quasi sul tavolo.
Fammi vedere le mani, disse Giusi Giusi.
Io le misi dietro la schiena. Di quelle mi vergognavo, non di stare là in mutande. Avevo le dita piene di verruche, non lo so perché. Mia madre diceva che mi erano venute giocando con la terra, mio padre era dell’opinione che mi fossi infettato camminando sulle mani sui bordi della piscina comunale, loro avevano sempre più opinioni e anche in questo caso io me ne feci una terza. Doveva essere una punizione per uno di quei guai che non riuscivo a non combinare.
Vieni, avvicinati, disse ancora. E io le diedi le mani con fiducia, sperando mi potesse guarire solo toccandomi.
Si alzò e staccò un fico dal ramo, mi prese una mano e mi appoggiò su una verruca la parte recisa del frutto, dalla quale sgorgava lento un latte bianco e appiccicoso.