Tutti conoscono Mélanie Laurent come attrice (grazie a Quentin Tarantino, Denis Villeneuve e Michael Bay), ma pochi sanno che è anche una regista, il cui talento si è raffinato man mano con gli anni. Al suo sesto lungometraggio, Il ballo delle pazze, si può dire che abbia realizzato la sua opera migliore (ve ne avevamo già accennato qui). Intendiamoci, non è un film che vi farà gridare al capolavoro, che vi farà piangere (o ridere) per giorni senza smettere di pensarci, ma ha degli aspetti positivi che lo rendono degno di una visione, e vi diciamo quali.
Prima di essere un film, Il ballo delle pazze è stato un romanzo, scritto dall’esordiente Victoria Mas e pubblicato nel 2019. Non c’è voluto molto prima che qualcuno se ne accorgesse, e in meno di due anni era già pronto a essere raccontato in un’altra veste. Per non uscire dalla Francia, è stata una connazionale dell’autrice a dirigere il film. Mélanie Laurent si è riservata anche un posto d’onore nel cast – è la prima volta che recita in un film di cui è regista – ma non quello della protagonista, che ha destinato invece a Lou de Laâge – che poi è stata già protagonista del suo primo film da regista, Respire. Perdonateci questo giro sulle montagne russe della cinefilia: è che Il ballo delle pazze ispira così tante connessioni che sembra obbligatorio snocciolare citazioni.
Più che citazioni acclarate e riferimenti, in realtà è la materia stessa della storia a richiamare precedenti illustri alla memoria. Tanto che chiunque abbia un discreto bagaglio di esperienza audiovisiva riesce perfettamente a capire cosa succede senza porsi troppe domande. Ma ecco comunque un po’ di contesto: siamo nella Francia di fine Ottocento, dove Eugénie Cléry è figlia di una rispettabile famiglia borghese a cui l’etichetta comune e la morale paterna calzano strette come un corpetto. Suo fratello è il complice grazie al quale riesce a intrufolarsi in esperienze che altrimenti le sarebbero interdette. La sua voglia d’indipendenza si scontra con il disappunto di un padre autoritario. C’è ancora dell’altro, però: Eugénie ha un dono sovrannaturale, quello di parlare con i morti. Naturalmente, non è una cosa a cui chiunque crederebbe sulla parola, nemmeno un genitore (ricordate Il sesto senso, no?).
Suo padre trova che sia abbastanza per rinchiuderla in un ospedale psichiatrico da cui difficilmente potrà uscire. Eugénie si trova in buona compagnia: insieme a lei, c’è un esercito di donne rifiutate dalla società, di cui davvero poche, oggi, definiremmo mentalmente malate. Alcune di loro, probabilmente, hanno più chance di peggiorare che di riabilitarsi, lì dentro – che poi è la stessa sorte che intravediamo per la nostra Eugénie. È sufficiente questo scenario per rievocare alla mente le storie di pazienti ingiustamente ricoverati, di reparti psichiatrici e di “disturbi femminili”, da La fossa dei serpenti a Io ti salverò, a Hysteria, finanche ad American Horror Story.
Il ballo delle pazze, però, non ha alcuna tendenza per l’orrore né il gusto per la commedia. Né tantomeno ha a che fare col tema dell’identità frammentata e da ricostruire, caro a tanti film d’ambientazione psichiatrica da Shutter Island a The Ward: Eugénie sa benissimo chi è come lo sanno da subito anche gli spettatori; semmai, è la società in cui vive a doverlo riconoscere.
Invero, Il ballo delle pazze ha una profonda attinenza realistica, che segna il primo punto a favore del film. L’ospedale in questione, difatti, è La Salpêtrière, vero ospedale parigino balzato più volte agli onori della cronaca. Alla direzione c’è invece Jean-Martin Charcot, anche lui vera figura storica, autore di celebri studi sull’isteria e pioniere nel campo della neurologia. Sarà il motivo per cui, in fondo, le abilità extrasensoriali di Eugénie sono solo un espediente narrativo, fascinoso quanto strumentale, piuttosto che asservito a sé stesso. Siamo di fronte a un caso di straordinarietà, intesa proprio come condizione al di fuori dell’ordinario, di unicità che in quanto tale fatica a essere compresa, addomesticata e ingabbiata.
Alla fine anche il ballo del titolo non rappresenta che uno stratagemma, certamente rilevante, ma che non definisce il contesto del film. Più che altro è una soluzione narrativa, e non arriva se non al culmine del climax. Si tratta di evento, un ballo (appunto) in maschera, al quale partecipano tutte le degenti e il personale dell’ospedale. Ma prima c’è tutto un altro nodo da sciogliere, ed è sociale. Il dramma de Il ballo delle pazze è il dramma della condizione femminile schiacciata dal patriarcato, di una prigionia concreta ma che è anche metaforica e parla di sé al pubblico di oggi – e siamo al secondo motivo per vederlo.
L’unica ancora di salvezza, per Eugénie e per le sue compagne di sventura, è la solidarietà tra donne. Sarà questa a fare la differenza, pur in mezzo alla crudeltà e all’indifferenza di talune operatrici dell’ospedale. Non dell’infermiera Geneviève – al secolo Mélanie Laurent – una sorta di caposala apparentemente austera che condivide con Eugénie la triste sorte di essere donna in un mondo di uomini. Geneviève è forse l’unico membro dello staff che conti qualcosa per cui i degenti non siano soltanto delle cavie, ma per quanto provi a fare la differenza è difficile far ascoltare la propria voce quando è fuori dal coro.
In un ambiente a dominanza maschile, non importa che tu sia la paziente o l’infermiera, poiché il confine tra sanità e disturbo mentale è assai esile e sono sempre gli uomini a tracciare la linea. Forse non è un caso che i personaggi maschili siano tutti bidimensionali, e quelli femminili invece siano assai più spessi. Non solo Eugénie e Geneviève: tutte le donne che prima o poi affiorano sullo schermo, persino quelle marginali, hanno una storia interessante da raccontare – un background, come si suol dire, accuratamente definito e assegnato a ciascuna di loro. Non può certamente essere un caso, ma una scelta intenzionale. Ecco perché Il ballo delle pazze è più di tutto un film politico. E con questo siamo a tre motivi per vederlo: bastano, no?
Disponibile alla visione su Prime Video
Andrea Vitale
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